Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Ancora un’immagine, la più fantastica: il castello che si erge a strapiombo sulla collina che domina Milazzo. Una costruzione gigantesca, di pietra che doveva essere candida ed è diventata lentamente gialla e porosa, si è confusa con il fianco della montagna ed è diventata tutt’uno.

Le mura cingono la cima, la costruzione, i terrazzi, gli spalti, le piazze, la vecchia cattedrale che sta rovinando lentamente, con la stessa mite decorosa rassegnazione con cui gli abitanti continuano invece a vivere. Una volta era una fortezza borbonica per dominare la piana, poi l’amministrazione piemontese ci fece un gigantesco carcere, che ha funzionato come penitenziario femminile fino a tre anni or sono.

Poi il castello finì d’essere carcere, finì di ospitare gente, finì d’essere tutto. I detenuti, il direttore, le guardie, le sentinelle, l’infermiere se ne andarono tutti in una volta, in fretta, da un’ora all’altra, lasciando ogni cosa com’era, i pagliericci, le celle, i registri, i catenacci ancora penzolanti dal chiodo, il sapone nella lavanderia, i tetri materassi, le orribili botole ancora scoperchiate.

Entrando in quel carcere deserto che nessuno conosce, si ha una impressione quasi allucinante. Sei sulla cima della montagna, il silenzio è totale, talune celle sono ancora sprangate come se qualcuno non avesse fatto in tempo a fuggire e fosse morto lì dentro, altri usci cigolano adagio nel vento; avverti misteriosi fruscii di lucertole, di topi negli archivi, lo stesso ragazzo che ti accompagna è nero, magrissimo, tristissimo, silenzioso, immobile, ti segue soltanto con lo sguardo, due occhi rotondi che non si staccano mai, sembra di sette o otto anni, e invece ne ha tredici, pare che una micidiale vecchiaia cominci già ad ammuffirlo.

Dagli spalti altissimi si domina tutta la piana di Milazzo, fino alle Eolie, tutta la penisola del Capo, le cittadine; laggiù in perpendicolare, come in fondo ad un pozzo si scorge il campo di calcio, vi corrono dentro atleti azzurri e rossi minuscoli come pulci. Gli spalti corrono tutt’intorno alla cima della montagna e dentro gli spalti la costruzione precipita inghiottita da una specie di cratere. Da una terrazza all’altra, come nei gironi danteschi, sempre più in basso, sempre più al buio, i cortili per le passeggiate, le celle di detenzione con i disegni osceni alle pareti.

E laggiù al fondo di tutto, le celle di rigore, un piccolo antro largo due metri e lungo tre, senza finestre, senza pavimento, con un’asse di legno e un cuscino di legno. Quando la porta si chiudeva dietro al condannato, lì dentro era buio assoluto. «Vuole provare?» dice il ragazzo nero, impassibile. Al diavolo ragazzo!

Un cancello divelto come se nell’angoscia di una fuga fosse stato abbattuto a spallate, i materassi colmi di paglia, il corpo di guardia con il registro ancora spalancato, nomi e parole come spettri, chi sa dov’è questa gente, se vive, se è morta o sta morendo.

Una pagina: «Signor Maresciallo, pregiomi riferire alla Signoria vostra quanto appresso. Ieri la signorina Costanzo ha offerto un pranzo a cinque detenute e cioè carne, pasta e patate, tutto allo stato crudo, con l’occorrente che il sottoscritto glielo ha cotto alla loro presenza ed un quinto di vino diviso ciascuno. Per dovere la guardia Frenda».

Un foglio dopo l’altro, storie atroci descritte come i diari della seconda elementare. L’inchiostro già si stinge «Signor Maresciallo, pregiomi riferire alla Signoria vostra quanto segue. Le detenute Camera Ignazia e Vinci Giuseppa chiedono udienza straordinaria al signor direttore motivo che il nove corrente hanno chiesto di essere visitate dal medico e non è venuto. Altre si lamentano che il pane glielo portano duro. Le detenute Smedita Santa e Combino Filippa chiedono due paia di mutandine. Con osservanza».

Le pagine. Ogni pagina un giorno. I registri ammonticchiati. I mesi, gli anni, la carta che diventa gialla, le mura che si sgretolano, gli esseri umani si rattrappiscono, le vene, le rughe degli occhi, le dita, la polvere sulle vicende degli uomini.

Il dolore e la burocrazia: «Signor maresciallo, pregiomi riferire alla Signoria vostra quanto appresso: la detenuta Abenovoli Rosaria chiede che il dottore gli scriva della pomata di mercurio per i pidocchi. Con osservanza la guardia Camera».

Se riuscissero a mantenere questo antico castello com’è, sarebbe un monumento più impressionante delle antiche catacombe. Ma non ci viene mai nessuno. Il ragazzino nero e triste dice che ci faranno un grande albergo di lusso, lasciando inferriate, celle e botole.

Ira Furstenberg o Soraja dormiranno accanto allo stesso muro che per dieci o venti anni vide le oscenità, gli sputi, e la disperazione della detenuta Cavallaro Concetta. Su questa terrazza altissima dove i borboni fucilavano i patrioti ed i ladri di bestiame, faranno una piscina ed una funicolare fino alla spiaggia. Ma il ragazzino non ci crede, fa una smorfia da gaglioffo. Sembra contento del resto: invece di fare il «lift» nel grande albergo, farà il pescatore o il contadino, e nelle belle serate andrà a Barcellona a guardare le donne di Barcellona.

In questa plaga Milazzo sembra la capitale, ma la cittadina che governa, che commercia, che acquista e vende, che cresce e che forse vagamente avverte l’infelicità della sua modestia, è Barcellona. Non ha industrie, ma la sua gente è più ricca poiché la terra dà lavoro a tutti e un terzo della popolazione è fatto di funzionari che hanno la sicurezza dello stipendio, comperano e possono sicuramente pagare.

Produce vini, oli, agrumi, ortaggi e soprattutto bestiame. Ha cavalli, vacche, pecore, maiali, capre, conigli come una cittadina del vecchio Far West. Qui non arriva quasi mai un turista, non c’è niente da vedere o da comperare per quello che cercano i turisti. Ma ogni giorno arriva egualmente gente da tutte le parti della Sicilia, gente molto triste, strana, prudente, silenziosa, che non parla con nessuno, che non si vede per istrada. Migliaia in un mese.

Anche questo è importante: poiché comperano, prendono alloggio negli alberghi, consumano caffè e bibite, usano i tassì, mangiano. Spesso stanno per delle settimane o magari per mesi, come turisti cupi ed ammalati. Sono i parenti dei cinquecentocinquanta detenuti nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, uno dei più grandi ospedali psichiatrici d’Italia.

Una villa bassa, bianca, leggiadra, con le persiane verdi, fiori che sbucano da tutti i muri, un magnifico giardino nell’interno. Sembra uno di quegli stupendi, candidi monasteri di Siviglia. Qui dentro vivono 550 belve umane. Taluni di loro fanno più paura delle belve poiché la tigre uccide per saziarsi, e costoro hanno ucciso invece senza un motivo: un’arma, uno scatto, un grido inarticolato. È bastato un nonnulla, un sobbalzo, un refolo, uno sguardo, per spezzare nelle loro menti qualcosa, come un’ampollina di vetro: ed hanno ucciso.

Cinquecentocinquanta criminali che forse sono pazzi, uomini che hanno strangolato bambini, gangster che hanno deciso delle vite umane come di capretti in un macello, piccoli borghesi che sono diventati assassini per un sospetto, per una fantasia, un sogno.

Qui dentro c’è Giuseppe Cucinella, luogotenente della banda Giuliano condannato a tre ergastoli; c’è Frank Coppola, il mafioso di Anzio, c’è Ugo Ciappina, uno della banda di via Osoppo condannato a 14 anni per una delle rapine più clamorose del dopoguerra.

Se riusciste a sbirciare nell’interno di questa villa vedreste uno spettacolo quasi assurdo: un grande chiostro fiorito, con i sedili, gli archi, i rosai, una fontanella, le siepi e le grandi camerate spalancate: e uomini in camice azzurro o bianco che passeggiano, stanno seduti compostamente a discutere come pensionati in un parco, oppure leggono e fumano, oppure lavorano indaffarati, costruiscono mobili, confezionano scarpe, vestiti, giocattolini, oppure dipingono quadri, oppure riparano i muri, costruiscono lampadari in ferro battuto.

Usano scalpelli, lime, spranghe, cazzuole, seghe, non litigano mai, parlano con educazione convenzionale, si offrono sigarette, costruiscono oggetti di artigianato mirabili. È probabile che le scarpe che portate ai piedi, o il lampadario che sta sopra le vostre teste sia stato confezionato con una delicata precisione dalle stesse mani che hanno seviziato un fanciullo.

E vanno a scuola: non imparano soltanto faticosamente a leggere e scrivere e fare di conti, ma studiano anche il latino alla scuola media, si specializzano in floricoltura, idraulica, meccanica, ortofrutticoltura. Infine studiano musica in un corso di orientamento sinfonico. Guadagnano cinquecento lire al giorno di salario e viene loro corrisposto inoltre un peculio che alla fine della detenzione sarà messo a loro disposizione, per ricominciare a vivere senza essere subito aggrediti dal bisogno.

Tutto quello che accade entro questa villa bianca e silenziosa è stupefacente. Gli agenti di custodia sono centoventi, divisi in tre turni di lavoro, sicché praticamente sono soltanto quaranta quelli che sorvegliano i cinquecento o seicento criminali. Ma qui non è esatto parlare di agenti: sono degli uomini che hanno accettato una sorta di esistenza ai limiti dell’assurdo, sono delle guardie che si spogliano della loro condizione sociale per scendere fino all’umilissima condizione umana di quegli infelici, capire minuto per minuto la loro disperazione: accendono la sigaretta allo stesso fiammifero, parlano della stessa squadra di calcio, non gridano mai.

Forse non hanno mai avuto bisogno di gridare, di dare un ordine. Tutta la città di Barcellona sembra condizionata da questa presenza. È la zona siciliana che registra il minor numero di crimini in assoluto, la delinquenza è un fatto remoto, se mai un modesto fenomeno di impeti, di violenze giovanili che subito si acquietano.

Non ho mai sentito delle notti prive di rumori, di voci, come le notti nella campagna di Barcellona. All’orizzonte le torri fiammeggianti di Milazzo sul mare, e l’ombra nera del castello con le sue celle spalancate, sul mare luci lontanissime come lucciole, le montagne nere, i fari delle auto su strade misteriose come piccoli lampi fra la boscaglia e laggiù, più bianco, il manicomio criminale dove dormono cinquecentocinquanta belve umane.

Se i loro sogni si potessero materializzare per un attimo, la terra si spaccherebbe dallo spavento. Non credo che ci potrebbe mai essere nel Sud, per ospitare questa adunata di disperazione, un luogo più adatto di questa pianura dove non ci sono prepotenze sociali, non ci sono ricchezze offensive e nemmeno miserabili, dove la povertà equamente sopportata ha dato una incredibile serenità. Non è forza trascinante di vivere, ma sicuramente una grande dignità.

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