Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


Il 1984 è stato l’anno in cui il pool ha mietuto i primi importanti, determinanti successi nell’azione di contrasto a Cosa nostra. La inattesa e imprevista collaborazione di Tommaso Buscetta e, sulla scorta delle sue propalazioni, la emissione di un mandato di cattura (il cosiddetto blitz di San Michele) che portò in carcere oltre trecento persone tra “uomini d’onore” e soggetti vicini a Cosa nostra, convinsero l’opinione pubblica che, finalmente, si faceva sul serio, che era giunta l’ora di un definitivo regolamento di conti con la mafia, che da tempo, troppo tempo, seminava morte e terrore. Ma quel vento favorevole, che aveva gonfiato le vele del consenso per il nostro lavoro, ben presto smise di soffiare, cambiando direzione.

Ci si accorgeva che l’opinione pubblica e il clima intorno a noi stavano mutando, come se Palermo volesse sprofondare ancora nel suo passato, nella sua “normalità”.

Quale fosse la “normalità” a Palermo tornammo a rendercene conto quando nel 1985 vennero uccisi due funzionari della Polizia di Stato, Beppe Montana e Ninni Cassarà, e perirono, in un tragico incidente stradale, gli studenti Biagio Siciliano e Maria Giuditta Milella, investiti da un’auto della scorta mia e di Paolo Borsellino. Un episodio atroce, una storia triste, una storia di quella Palermo.

Il 25 novembre 1985 è stato l’ultimo giorno di scuola per Biagio Siciliano, 14 anni, e Maria Giuditta Milella, 17 anni, studenti del Liceo Classico Meli. Alle 13,35 un’Alfetta che scortava l’auto blindata in cui sedevamo io e Paolo Borsellino, dopo avere urtato contro una Fiat 127 che non si era fermata all’alt di un vigile urbano all’altezza dell’incrocio tra viale della Libertà e piazza Croci, piombava addosso a decine di studenti del vicino liceo che, terminate le lezioni, attendevano a una fermata di autobus di fronte l’istituto, per fare rientro a casa.

A seguito del violento impatto, ventitré studenti riportarono ferite, per fortuna non gravissime, mentre Biagio morì dopo qualche ora e Giuditta a distanza di cinque giorni dal ricovero in ospedale.

Fu una tragedia che sconvolse una città blindata che, ormai da qualche tempo, viveva in un clima di terrore e di violenza dovuto alle centinaia di morti per mano mafiosa nel giro di pochi anni. E dalla morte di Biagio e Giuditta anche le nostre famiglie furono sfiorate. No, non furono solo sfiorate, la mia famiglia davvero sprofondò in quel dramma. Mio figlio Michele, allora tredicenne, frequenta-

va quella stessa scuola ma non si trovava ad aspettare sotto la pensilina dell’Amat perché le lezioni della sua classe erano finite un’ora prima, alle dodici e trenta.

La fine di quelle due giovanissime vite ha lasciato un vuoto incolmabile nelle famiglie e un dolore straziante, una cicatrice indelebile in me e in Paolo, involontarie cause di quel terribile lutto, e ha centuplicato il nostro impegno nell’azione di contrasto a Cosa nostra.

Di recente, il Comune di Palermo ha intitolato a Biagio e Giuditta, vittime innocenti di mafia, una strada nei pressi del Liceo Meli. Nel suo commosso intervento, il Sindaco Leoluca Orlando ha ricordato come “in un momento ‒ si era proprio alla vigilia del Maxiprocesso ‒ in cui molti criticavano lo Stato che combatteva la mafia, criticavano le scorte e le sirene, i genitori e i compagni di Biagio e Giuditta reagirono con una straordinaria compostezza vivendo l’inconsolabile dolore senza una sola parola fuori posto, senza farsi trascinare nel gorgo delle emozioni più negative, cose che sarebbero state subito strumentalizzate da chi guardava con fastidio l’impegno dello Stato contro la mafia”.

In quei giorni, il consigliere istruttore Antonino Caponnetto parlò di grande consapevolezza civica e diede prova, anche in quel drammatico frangente, di essere un grande uomo. Era ritornato a Firenze, a casa sua, da ventiquattro ore appena, in una delle rare occasioni di libera uscita da Palermo in quattro anni e mezzo, quando ricevette la telefonata con la quale Paolo Borsellino in lacrime gli comunicava l’accaduto.

Paolo era distrutto dai sensi di colpa, non chiese ad Antonino di tornare ma lui non ci pensò due volte, prese il primo volo utile e si precipitò a Palermo per stargli vicino.

Purtroppo non ricevemmo uguale solidarietà da tanti cittadini palermitani, che, di contro, si esibirono in manifestazioni di intolleranza tutt’altro che edificanti, se non di misconoscenza del pericolo gravissimo che correvano i magistrati, non solo noi del pool si intende, impegnati in processi di mafia.

Già abbiamo detto degli strali a mezzo stampa dei condomini di via Notarbartolo, dove abitava Falcone, preoccupati che la sua sola presenza mettesse a rischio la loro incolumità personale. Ma anche le scorte dei magistrati, che percorrevano velocemente le strade cittadine, erano oggetto di vibranti e continue lamentele. Quelle lamentele che trovavano sfogo, forse per un caso, sempre sulle colonne del “Giornale di Sicilia”, che pubblicava lettere di protesta come quella che già abbiamo visto.

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