Diario di un viaggio notturno in seconda classe da Catania a Roma, nel quale mi limiterò a raccontare i personaggi che ho conosciuto, i discorsi che ho ascoltato e le cose che ho visto, senza aggiungere, né riferire quelle che indubbiamente sono state le mie impressioni sentimentali
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
Gli emigranti per il nord partono sempre dalla stazione di Catania alle nove di sera. A Roma, alle otto dell’indomani, li attende un treno che alle due del pomeriggio arriva a Bologna: ognuno lì prende il suo ultimo treno che lo condurrà alla volta di Zurigo. Amburgo, Colonia, Bruxelles… Ho voluto viaggiare su uno di questi treni, cioè ho cercato di capire cosa accade mentre un uomo si allontana dalla propria terra e dalla propria famiglia e sa che per mesi ed anni non potrà più tornare: le parole che egli dice, i pensieri che gli passano per la mente.
Ecco, il fascino dell’esperimento era questo appunto: capire fin dove fosse falso tutto ciò e ricondurlo alla realtà, alla giusta proporzione dei fatti umani, vale a dire semplicemente un viaggio di gente che va a lavorare in un’altra parte dell’Europa dalla quale si può comunque tornare in sole tre ore di aereo.
Questo che segue, dunque, è il diario di un viaggio notturno in seconda classe da Catania a Roma, nel quale mi limiterò a raccontare i personaggi che ho conosciuto, i discorsi che ho ascoltato e le cose che ho visto, senza aggiungere, né riferire quelle che indubbiamente sono state le mie impressioni sentimentali. Un’ora prima dell’arrivo del treno furono portati sul binario due vagoni, uno con le cuccette e l’altro senza. Il primo a giungere sotto la pensilina fu un uomo anziano con una grande valigia.
Sedette sulla panchina di pietra, stette un po’ a guardarsi attorno senza impazienza, poi tirò fuori dalla valigia un filoncino di pane ed una boccia piena di piccole polpette, trasse di tasca un coltello e si mise a mangiare in silenzio. Tagliava la fetta del pane, infilzava la polpetta sulla punta del coltello e mangiava.
Mentre era così intento arrivò un uomo ancora giovane, con una giacca di velluto verde e due penne stilografiche nel taschino. Posò le valigie accanto all’altro e fece un sorriso di scherno: «E che fa: mangiate sempre? Ancora dovete partire e già mangiate?».
L’uomo fece un gesto di rassegnazione: «Avevo fame e perciò mangio!» Cominciò ad arrivare altra gente: anzitutto cinque giovani con zaini e una fisarmonica e quasi contemporaneamente una sterminata famiglia che accompagnava un giovane alto e triste, il quale sembrava più triste poiché tutti i parenti gli parlavano e gli raccomandavano qualcosa ed egli si limitava ad annuire in silenzio. Subito dopo giunse una donna grassa, che si trascinava una valigia e due bambini vestiti di nero e dietro di lei un vecchietto con gli occhiali.
Lentamente il marciapiede si riempì di gente e di bagagli finché venne un ferroviere che prese ad aprire gli sportelli dei vagoni e subito, tutti in una volta, si ammucchiarono sui predellini chiamando, spingendo, trascinandosi i bagagli. In meno di tre minuti furono tutti sistemati, ma la partenza imminente aveva ormai elettrizzato l’atmosfera e tutti continuavano infatti a parlare a voce sempre più alta, chiamandosi e gridando, scendevano dal treno, si baciavano, risalivano di nuovo.
Quando il vagone fu agganciato al treno molti cominciarono veramente a piangere, si protendevano dai finestrini per toccarsi le mani. Solo il vecchietto con gli occhiali continuò a camminare fino all’ultimo accanto al treno, salutando la donna e i bambini.
Scomparve anche lui, il treno si lasciò dietro il golfo di Ognina, si vedeva no i fari delle automobili che correvano sulla nazionale, la donna sembrava che guardasse dal finestrino la corsa delle auto e invece piangeva, con i capelli che le sbattevano in faccia ed i due bambini che le stavano accanto silenziosi.
Erano riusciti ad occupare due soli posti nel nostro stesso scompartimento nel quale si erano sistemati anche quel giovane alto e triste e i due compari. Fra l’uno e l’altro non c’erano più di dieci o quindici anni di differenza ma per semplicità di racconto li chiamerò rispettivamente il vecchio e il giovane. Entrambi erano personaggi veramente bizzarri.
Tutto l’aspetto fisico del vecchio dava l’impressione della piccolezza; anche il volto aguzzo, le guance incavate, persino gli occhi che aveva minuscoli e ridenti: gli ridevano sempre, qualunque cosa dicesse o gli altri dicessero. Ed era inoltre straordinariamente lento e parsimonioso, cioè non sprecava una parola o un gesto. Fino a Taormina disse semplicemente: «Vuoi vedere che stanotte piove?».
Il giovane invece era il suo opposto: corpulento, inquieto e sfottente, continuamente animato dalla curiosità e dal sarcasmo. Aveva una faccia stretta e lunga con due grandi orecchie sporgenti, due piccoli baffi chiari e le basette; gli mancava un dente in mezzo alla bocca e parlando faceva un sibilo impercettibile.
Non stava mai un attimo fermo, si alzava, guardava dal finestrino, apriva e chiudeva il vetro, passeggiava nel corridoio, andava al gabinetto, parlava, si sedeva, fumava, guardava l’orologio, leggeva il giornale, faceva domande. Soprattutto sembrava non tollerasse la taciturna flemma del compagno più vicino.
Ad un certo momento non riuscì più a resistere e attaccò discorso: «Scusate se apro di nuovo il finestrino, facciamo entrare un po’ di aria… Se le viene troppo vento possiamo cambiare anche posto… Permette che mi presento? lo mi chiamo Giovanni Lamesa e mio compare Salvatore Amodio!» Eravamo arrivati nei pressi della stazione di Messina e Giovanni Lamesa fu ripreso dalla sua agitazione, si affacciò al finestrino, andò nel corridoio, tornò indietro: «Ora vado a mangiare al ristorante del traghetto! Nessuno mi tiene compagnia…». Se ne andò solo.
Per tutto il tempo del traghetto il vecchio non disse niente; la donna entrò una volta, prese un involto e cominciò a mangiare con i bambini nel corridoio; il giovane triste invece si sistemò nell’angolo e chiuse gli occhi, lentamente la testa gli scivolò contro la tendina e si mise a dormire.
Alla fine tornò Lamesa, disse che aveva mangiato benino al ristorante, spiegò che avevamo già un’ora di ritardo, svegliò suo compare che aveva cominciato a sonnecchiare e infine tentò di stendersi a gambe larghe con i piedi sul sedile di fronte, ma si dovette subito ritrarre poiché entrò la donna con i bambini, li fece coricare l’uno accanto all’altro sul sedile, si tolse le scarpe e si rannicchiò vicino ai figli.
«A posto siamo!» disse Lamesa. La donna aveva il volto disfatto dalla stanchezza; si limitò ad aprire un occhio ed a fissarlo: «Se volete stare comodo perché non vi comperate un treno?». Questa era evidentemente una sfida per Lamesa il quale difatti ci strizzò l’occhio e si volse di nuovo alla donna: «Ma voi che ci andate a fare in Germania? Lo sapete che là parlano tutti tedesco? Diomenescansi vi perdete per strada come fate?».
La donna non rispose e Lamesa continuò a strizzare l’occhio: «Signora, e lei così se li porta i bambini in Germania, vestiti di nero come due becchini… Vuole scommettere che alla dogana non li fanno passare?» La donna fece un brontolio minaccioso ma Lamesa non se ne preoccupò.
Si divertiva: «Signora le pare che sto scherzando? Sembrano due statuine mortuarie. Gli deve comperare invece due belle camicie colorate, lei pure si compera un bel cappotto di pelliccia, una minigonna… Suo marito chissà quanto tempo è che aspetta la visita della moglie, se lo immagina lei che accoglienza la prima notte: a quest’ora si è fatto il bagno col profumo e lei si presenta vestita pure di nero come un catafalco…».
Il compare gli fece un gesto per dirgli di smetterla e Lamesa finalmente stette zitto, cercò invano una posizione comoda ed alla fine se la prese di nuovo con l’amico: «La verità è che noi siciliani siamo troppo superstiziosi… per esempio questa del lutto è una superstizione… i tedeschi perciò ci reputano ancora selvaggi… Anche questo galantuomo una sera mi fece fare una figura da cane: una sera di sabato me lo vidi presentare a Colonia e voleva essere portato con le donne tedesche. “Avanti” diceva “ho fatto cinquanta chilometri di treno, stasera fatemi divertire, mi spendo anche cento marchi. Una cosa da pazzi: tutto vestito di nero, come se dovesse andare a un funerale, anche il berretto nero, la cravatta nera…».
Il vecchio fece un sorriso un po’ buffo: «Mi volevo passare il capriccio. Vi sentivo sempre parlare di queste donne tedesche e allora dissi: vediamo di che cosa si tratta… La bella nottata che passammo!»
Il compare lo minacciò col pugno: «Che potevo fare? Lo presentavo alle mie amiche e conoscenti? Quelle sono dattilografe, impiegate, vogliono ballare, andare con la motocicletta, mangiare nei ristoranti, alla fine se l’uomo gli piace se lo portano a letto e in due ore lo disossano. Ve lo immaginate: Permettete? Il mio amico Salvatore Amodio… Vestito di nero, con la barba di una settimana, non sapeva dire nemmeno una parola di tedesco… questo sorriso da babbeo! E che ti sei portato: compare Alfio della Cavalleria? Invece lo portai in una gasthouse, si dice così, un locale dove ci vanno gli emigranti e la gente anziana: c’è la birreria, un grande salone con l’orchestrina e una ventina di donne… tu le inviti a bere la birra, ti fai un giro di ballo, poi te ne scegli una e te la porti nella stanza di sopra…».
A questo punto il vecchio si arrabbiò: «Intanto cominciamo col dire che erano tutte prostitute…» «Ma voi che volevate… le signore dell’alta società?» «Ma nemmeno prostitute! Mai viste donne di quel tipo: una cosa repellente! Erano tutte vecchie, con i capelli gialli, poi erano grasse e non dimentichiamo che erano anche ubriache. Mi facevano schifo…».
Il giovane gli fece un cenno di disprezzo: «Bella figura che m’avete fatto fare! Prima non voleva la birra e poi si ubriacò, poi si portò una donna nella camera, poi non la voleva pagare, poi gli voleva rompere una bottiglia in testa, infine si coricò sul letto e cominciò a piangere…» «Mi avete fatto ubriacare…» «Il fatto è che non ce la fate più. Non è una questione di età.
Un uomo è vecchio solo quando si sente vecchio, e voi siete così!» Lo avvolse con uno sguardo di commiserazione: «La verità è che certi tipi di italiani non li dovrebbero fare andare all’estero. Appena arrivano alla frontiera subito i carabinieri li dovrebbero rimandare in paese…» Dallo scompartimento vicino scoppiò un suono di fisarmonica, un clamore di grida e di risa.
Lamesa subito si alzò per andare a vedere, si sentì la sua voce che partecipava al canto ed alle risate, dopo un poco fece ritorno: «Si stanno divertendo! Bevono e mangiano! Sono stati tutti ingaggiati in un cantiere edilizio, ma dopo un mese scappano e ognuno si cerca un altro lavoro per conto suo. Fanno sempre così…».
Si guardò intorno con un sospiro: «Che fa: avete intenzione di dormire?» Invece il vecchio prese la valigia, tirò fuori di nuovo il pane con la boccia delle polpette, la fece vedere in giro: «Volete favorire?», e ricominciò a mangiare, guardato con attenzione nauseata dal suo compagno: «Ma come? Mangiate di nuovo…? E quante diavolo ne avete di queste polpette? Io per esempio, arrivato a quest’ora ho bisogno invece di un altro caffè, oppure di una birra…»
Il compare fece un grave segno di assenso: «I signori fanno così!» Al che il giovane aspirò una boccata della sigaretta e lentamente gli soffiò il fumo in faccia: «Non vi date pace che voi in Germania siete rimasto contadino ed io invece sono diventato un signore. Non ci sono dubbi! Anche nella fabbrica, oppure nella pensione, nessuno mi chiama mai per nome, all’uso siciliano. Sempre signore! “Herr Lamesa shuldiken sie bitte…” Signor Lamesa chiedo gentilmente scusa…».
Tentò delicatamente di poggiare un piede sul sedile di fronte, ma la donna ebbe una reazione di collera: «Per cortesia…» «Va bene, va bene signora… certo però che le gambe da qualche parte le debbo sistemare.» Fece un gesto di compassione e riprese il discorso: «I soldi, parlano chiaro: io guadagno milleottocento marchi al mese e lui invece nemmeno mille. Ogni mese risparmia seicento marchi, da quattro anni fa questa vita da miserabile, non conosce nemmeno la città dove abita, non ha un amico. Sempre questa vita; lavora come una bestia e dorme. Si è fatto tutto un programma: altri tre anni così in Germania, poi si compera un orto vicino Canicattì e ricomincia a fare il contadino…» «Io ho cinque figli!» disse il vecchio «E voi invece che programma avete studiato?» «Io sono giovane: imparo bene la lingua, divento capo reparto e metto la saliva sulla punta del naso ai tedeschi. Fra cinque anni torno al paese con la 124 special. Poi ci incontriamo, io con la 124 special e voi sempre con l’asino…».
Il sonno gli mangiava gli occhi, tentò istintivamente di rannicchiarsi contro la spalliera, ma non riusciva a stare fermo, guardò il compare che lentamente era scivolato nell’angolo col berretto sulla faccia, accese un’altra sigaretta e uscì daccapo. Cinque minuti dopo riapparve e cominciò a chiamarmi nel corridoio con piccoli gesti silenziosi, mi trasse per il braccio indicandomi col dito la donna che sonnecchiava accanto ai bambini.
Fece una voce bassissima: «Scommettiamo che questa combina una tragedia? Nell’altro scompartimento mi hanno raccontato tutto: suo marito lavorava in una fabbrica di Francoforte ma da un anno non le manda più denaro. Nemmeno una lettera. Dicono che oramai vive con una donna tedesca, ma la moglie ora ha saputo l’indirizzo dal consolato e va a vedere quello che è successo. Questa è capace che gli spara. Lei che ne dice…?».
Non attese nemmeno la risposta e andò a sedersi in faccia alla donna: «Chiedo scusa signora, posso farle una domanda? Per caso suo marito si chiama Infantino?» La donna non rispose ma Lamesa non si rassegnò: «Ma lei che ci va a fare? Forse è malato…» «Siamo stati compagni in una fabbrica! Chissà ora dove lavora…» «Mio marito non si chiama Infantino!» «Sicuramente però lo debbo conoscere. Per curiosità suo marito come si chiama…» La donna non rispose ma Lamesa non si rassegnò: «Ma lei che ci va a fare? Forse è malato…» Gli occhi della donna improvvisamente si erano gonfiati di lacrime e Lamesa abbassò ancora la voce. «Perché non mi vuole dire come si chiama…» La donna non rispose più. Si ripiegò lentamente sul sedile e si raggomitolò accanto ai bambini, con gli occhi chiusi.
In quel momento un uomo con gli occhiali si affacciò nello scompartimento e si accostò al giovane che dormiva con la faccia quasi nascosta nella tendina, e lo toccò lievemente col dito. L’altro alzò subito la testa quasi impaurito e l’uomo si chinò ad osservarlo con attenzione.
Disse a bassa voce: «Che fai, piangi? Pensavo che dormissi… Stupido, perché piangi?» Il giovane cercò di stare con il viso contro la tenda, ma l’uomo lo aiutò ad alzarsi e se lo portò via con la mano sulla spalla. Tornò dopo un poco e prese la valigia del ragazzo dal portabagagli: «Scusate, così starete più larghi…» Fece un sorriso triste: «Gli è morto il padre due settimane fa: lavorava a Colonia, ma è rimasto fulminato da una scarica elettrica. Ora la direzione della fabbrica ha dato l’impiego al figlio. E la prima volta che viene in Germania, è ancora emozionato…» Il posto se lo prese subito la donna la quale si coricò più comodamente sul sedile. Lamesa fumò ancora un sigaretta, ogni tanto smaniava: «Ora ci vorrebbe un bel caffè…».
Improvvisamente pensai che ognuna di quelle persone viaggiava verso la Germania con un cuore diverso. Per la donna la Germania era esclusivamente il paese dove aveva perduto il marito, cioè si erano distrutti l’amore e l’ordine della famiglia. Vi si recava per disperazione.
Per il vecchio invece rappresentava un luogo sconfinato e oscuro, come può esserlo una prigione per chi sta dentro una cella e intravede luci, sente voci e fragori, senza sapere mai cosa esattamente siano; ed egli infatti vi stava chiuso dentro con la rassegnazione di chi deve scontare una fatale condanna. Più buona sarebbe stata la sua condotta, e prima sarebbe arrivato il premio della liberazione: un orto per viverci da contadino il resto della sua vita. Aspettava con pazienza.
Per il giovane viceversa la Germania era una terra di conquista, l’unica occasione valida per lottare e realizzarsi come uomo finché durava la giovinezza. Infine quel ragazzo che lasciava la casa per la prima volta: la Germania, quella cosa che gli stava dinnanzi, sconosciuta e drammatica, era semplicemente la vita. Nel vagone avevano acceso la luce azzurra e s’era fatto un gran silenzio. Quando Lamesa fu convinto che tutti dormivano, tirò giù cautamente la sua valigia, prese una pagnotta imbottita con mortadella e melanzane e, lentamente se la mangiò tutta.
Aveva anche una bottiglia di acqua col tappo di gomma, e ne bevve almeno la metà. Infine sistemò silenziosamente tutto, incrociò le mani sulla pancia e si addormentò di colpo anche lui, accanto al compare. E così passò tutta la notte, i piccoli sogni, le miserie, le bugie, la paura, le speranze, tutte le cose che durante la notte compongono i sogni degli uomini.
Finché venne l’alba e il primo a svegliarsi fu uno dei bambini, il più grandicello, che però rimase immobile a guardare il finestrino; poi si svegliò Lamesa che cominciò subito a fumare in silenzio e infine il vecchio il quale si raddrizzò lentamente con piccoli sospiri di fatica. Si tolse il berretto per raschiarsi adagio i capelli e se lo calcò di nuovo, e quello fu il segno che era perfettamente sveglio.
Subito si incantò a guardare la costa verde, grigia e azzurra che correva a fianco del treno. Disse: «Guarda, c’è ancora il mare!» «Anche in Germania c’è il mare!» disse Lamesa e il vecchio ancora intontito dal sonno fece un impercettibile sbuffo di scherno dalle narici: «Sì, il mare in Germania…».
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