Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Improvvisamente l’intellettuale deflagrò in una risata così piena di umiliazione, di scherno, di disprezzo, che parve pazzo. Mi fissò con due occhi rotondi: «Io non mi lavo da un mese - disse - Lavarmi veramente cioè, con l’acqua che ti scorre addosso, il sapone. Acqua e sapone in tutto il corpo. Guardi, guardi...». Infilò due dita nel colletto, allargandolo; aguzzò il collo rattrappendosi tutto in faccia, quasi offrendo un varco fra la camicia e la pelle dove l’occhio potesse penetrare per constatare il dolore, l’aberrazione della sua sporcizia fisica. Mi guardava come se dietro di me ci fossero tutti gli altri siciliani, tutti gli altri italiani che non sanno quello che accade a Licata, e non vogliono saperlo, e se gli accade di conoscerlo non gliene frega proprio niente.

Disse: «In una settimana l’acqua arriva soltanto un’ora. L’acqua si vende per le strade con le botti. Passa il carro con l’asino, e la botte sopra. Trenta o cinquanta lire a brocca, secondo la capienza. Il Comune ha fatto un contratto con l’Ente Acquedotti Siciliani, una istituzione della Regione, perché provveda alla costruzione di due grandi serbatoi di acqua ed all’allacciamento della rete idrica in tutti i quartieri. Ogni tanto fanno qualche lavoro di scavo e lasciano la strada sventrata. Dovrebbero provvedere a rifornire la popolazione con le autobotti nei mesi di maggiore carenza, ma non lo hanno mai fatto.

La cosa buffa è che alle spalle di Licata tutte le montagne grondano acqua come fontane, ma manca l’acquedotto per portarla in città. Non c’è nemmeno il progetto. Qui non c’è niente. Non ci sono le fognature per portare via gli escrementi, dalle case vengono gettati sulla strada, anzi vengono gettati fuori casa, poiché la strada non esiste, è solo un lurido, schifoso ammasso di polvere e di sterco. Abbiamo un porto che potrebbe costituire l’unico scalo per tutte le merci che affluiscono a Gela e per la spedizione dei sali potassici dalle miniere di Pasquasia. Ma è interrato, un piroscafo non riesce più ad entrarci, bisognerebbe scavare di nuovo i fondali, ricostruire i moli, montare le attrezzature, costruire i capannoni. Invece lo hanno escluso persino dagli stanziamenti nazionali del “Piano azzurro“.

Del resto non c’è nemmeno una strada che ci colleghi con l’interno. Non abbiamo niente, viviamo ai confini del mondo, siamo prigionieri, siamo in fondo all’abiezione, non abbiamo acqua nelle case, né fognature per liberarci delle nostre stesse miserie, né strade per camminare. E non abbiamo nemmeno amore per noi stessi, riconoscenza, rispetto, quella forza terribile e collettiva che la disperazione riesce talvolta a suscitare nell’animo della gente. Siamo morti. I nostri diecimila uomini migliori li abbiamo esportati, erano i più giovani, quelli che avrebbero potuto lottare, ribellarsi. Siamo rimasti i vecchi, gli imbelli, i più rissosi, gli storpi, i paralitici, quelli che hanno definitivamente perduto la loro battaglia. Ora avremmo una grande speranza, cioè un gigantesco stabilimento petrolchimico che l’Eni, l’Edison e l’Ente Minerario Siciliano dovrebbero costruire alla periferia di Licata per la produzione di fibre acriliche. Dovrebbe dare lavoro ad almeno millecinquecento operai. La convenzione è stata già firmata a Palermo.

Ma i comunisti si sono ribellati, poiché non vogliono uno stabilimento costruito con denaro privato. O col denaro dello Stato, o niente! Lei se lo immagina questo Stato italiano, enorme, paterno, premuroso, che si china sulla minuscola Licata, la piccola città con le strade coperte di sterco, le case vuote, le campagne secche, il porto deserto, e dice: Ma tu Licata di che hai bisogno? Ti bastano cento miliardi per un bello stabilimento di fibre acriliche? Com’è che non hai parlato prima poverina? Eccoti i cento miliardi! Fece un sospiro e si concentrò con disperazione. Voleva completare il racconto della sua città. Disse a voce bassa, descrittiva: «Abbiamo un teatro comunale, ma non funziona.

Abbiamo una splendida biblioteca con diecimila volumi, ma è letteralmente in rovina, poiché non c’è nessuno che se ne occupi. Abbiamo tre cinema e due sale da biliardo. Non c’è mai una conferenza, un’occasione per imparare, una rassegna d’arte. Tutto è deserto, triste, silenzioso; questa è una città circondata da altissime mura e noi ci siamo calati dentro come una tomba. Giochiamo a carte. Ha visto? Si gioca a carte dovunque, nei circoli, società, sodalizi, caffé, congreghe. Ad un certo momento si ha l’impressione che la maggior parte di questa popolazione si stia preparando ad una specie di gigantesco campionato di giochi a carte: briscola coperta e scoperta, tressette, terziglio, ramino, scala quaranta, scopone classico e scientifico.

Stanno aggrumati in otto o dieci attorno ad un tavolo, quattro che giocano e gli altri che guardano, cinque o otto tavoli in una stanza, e le stanze gremite, gli adolescenti contro i vecchi o in coppia fra loro. Giocano con una serietà, una capacità di concentrazione, come se fossero straordinariamente compenetrati dell’importanza di quello che fanno. Accade che a volte, in determinati ambienti, dopo anni di consuetudine al gioco, dopo che tutt’intorno la società ha murato qualsiasi altra possibilità di evasione o di scelta, un individuo cominci ad essere valutato per la sua abilità nelle carte, per la sua intuizione o manovra nel gioco, per la sua audacia o capacità di meditazione. Giocano tutti: i contadini, i disoccupati, i manovali, gli impiegati, i professionisti, i benestanti, i poveri, i pescatori.

Giocano per mancanza di un’alternativa nel loro tempo libero, per rassegnazione, per abitudine, per soffrire meno la loro condizione, perché il gioco delle carte, fra tutte le arti inventate dagli uomini, è quello che dà una più costante sicurezza di essere vivi, di continuare a lottare, restando però immobili su una sedia, contro altre persone anch’esse immobili e che domani ritroverai infallibilmente sedute allo stesso posto. Fino ad un certo livello giocano senza differenza di censo, contadini, manovali, meccanici, operai. Poi c’è uno stacco, un gradino, ci sono i borghesi che giocano fra di loro.

La gente più povera li chiama i “cavallacci” che è un termine antico per indicare i nobili, la gente dotata di cavallo. Non c’è odio oramai in questo termine, né disprezzo, forse soltanto il rammarico per essere coinvolti nello stesso destino, dimenticati qui in fondo all’Europa, e tuttavia non poter giocare una bella briscola insieme». Aveva finito. Si tolse gli occhiali, estrasse un fazzoletto incredibilmente candido, lo prese proprio adagio dalla tasca interna del portafoglio, con la cura meticolosa, la circospezione che si adopera per una cosa fragile; pulì lentamente gli occhiali e se li rimise sul naso. Ma aveva qualcosa ancora da dire, gli pesava sul cuore.

Guardò quei ragazzi che avevano finito di correre e si erano seduti in fila su uno scalino. Li indicò in silenzio, ma con un gesto esitante, come se improvvisamente gli fosse scoppiata dentro una trascinante tenerezza, un bisogno di speranza, per qualcosa, per qualcuno. «Sono magri - mormorò - Sono così piccoli, così deboli. Tuttavia cresceranno e diventeranno uomini: fra dieci anni questo bambino sarà in Australia, quell’altro sarà nel Canada o nelle miniere del Belgio. Molti di loro resteranno piccoli di statura e gracili. Certo se lei va in Germania o in Olanda, non trova mai uomini rachitici, o nani, o deformi. La floridezza fisica degli individui dipende dal cibo che mangiano quando sono ancora fanciulli. Anche l’intelligenza, sa! La miseria e il bisogno aguzzano il cervello, lo rendono continuamente famelico, pronto a scattare come un cane, pronto a scattare per mordere; ma quella non è intelligenza, è astuzia, scaltrezza, istinto. Oppure, quando l’anima riesce a sopraffare la disperazione, si riesce talvolta a esprimere poesia.

Ma nemmeno la poesia è intelligenza, poiché l’intelligenza ha bisogno di essere esercitata da un corpo sazio. L’intelligenza è quella che produce le ottime leggi, che crea le macchine più razionali, che esclude i vizi, che calcola la resistenza dei metalli, la velocità degli aerei, inventa i sieri per le malattie, le armi più micidiali per uccidere. Il genio dell’affamato è innocuo ed inutile, è cupo, affannoso, intristito da mille problemi per sopravvivere. Le grandi soluzioni lo schiacciano.

La Regione ha varato sei anni or sono uno stanziamento di undici miliardi per bonificare la zona. Non siamo riusciti a far nemmeno funzionare la commissione per l’utilizzazione degli stanziamenti. Abbiamo fatto dieci crisi politiche, ci azzanniamo per le molliche, lottiamo per spodestare il rivale dalla poltrona di comando, lottiamo con tanta astuzia, convinzione, alacrità, furbizia e maleficio che vi riusciamo quasi sempre. E il problema che quel nostro rivale avrebbe potuto risolvere resta tragicamente tale, né noi saremo capaci di risolverlo, poiché i nostri rivali a loro volta riusciranno, con astuzie, cavilli, trappole, incidenti, crisi e malefici a toglierci la poltrona di sotto. Così è Licata, quelli che siamo rimasti a Licata...».

Si tolse gli occhiali di nuovo, e improvvisamente gli occhi gli divennero smorti, la pupilla nera sembrava gli tremasse dietro un’ampollina di acqua. Le lacrime non si vedevano, ma gli gonfiavano la fronte.

Finì: «Sarei voluto andar via da qui come gli altri diecimila. A volte ho calcolato qual è il prezzo di un uomo. Sei miliardi l’anno di reddito estero per la città diviso il numero degli emigrati. Il prezzo di un uomo, di ogni vita che nasce, è di seicentomila lire. È poco, è poco! Ma io qui valgo ancora di meno. Io non so se riusciremo mai a costruire quello stabilimento di fibre acriliche. È persino una parola difficile da pronunciare. Ecco, per fare le fibre acriliche ci vuole tecnica, cioè intelligenza moderna. Però sono sicuro che riusciremo, sempre, l’uno a sconfiggere l’altro... Io sono uno di quelli!»

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