Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


La dimostrazione che il “clima” era definitivamente cambiato, che il vento del consenso aveva da tempo smesso di soffiare, è data anche da un episodio vissuto da un componente della mia famiglia.

Si era nel periodo dopo le stragi del 1992. Mia moglie si trova in un negozio a cui accede una signora adirata perché aveva fatto molto fatica a parcheggiare la sua autovettura. Ad alta voce, si lamenta del fatto che, con “la storia della messa in sicurezza dei magistrati”, era impossibile trovare un posto dove parcheggiare l’auto per le numerose zone rimozione nei pressi delle abitazioni di

magistrati impegnati in indagini di mafia. Non solo. La signora suggerisce un rimedio al problema. Perché non concentrare tutti quei magistrati in un luogo isolato, così, se li ammazzano, li ammazzano tutti lì?

Gelida, mia moglie le fece notare che non si sarebbe espressa in quei termini infelici e offensivi se uno dei suoi familiari fosse obbligato a muoversi con la scorta per i pericoli che correva perché stava facendo il suo dovere. Nel negozio calò il silenzio.

Non era facile vivere in una simile atmosfera di tensione, dove a volte sembrava che dessimo soltanto fastidio. Noi tutti sapevamo che il magistrato deve svolgere il proprio compito senza preoccuparsi di quel che pensa la gente. Non cercavamo il consenso, il plauso dell’opinione pubblica. Ma è altrettanto vero che, nella situazione in cui viveva Palermo, dove la battaglia era anche culturale, sarebbe stata appagante e incoraggiante la consapevolezza che la società civile fosse partecipe e attenta al nostro lavoro.

Mi accorgo che sto divagando, forse perché voglio allontanare da me il momento del ricordo di quei terribili giorni dell’estate di sangue del 1985.

Il primo a cadere fu Beppe Montana, commissario della Squadra mobile della Questura di Palermo, soprannominato “Serpico” perché era sempre in prima linea. “A Palermo siamo poco più d’una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà”. Così disse, in occasione di una retata finita con l’arresto di otto uomini di Michele Greco, in cui “il Papa” si era sottratto alla cattura.

Montana girava in moto nelle strade di Palermo e con il suo motoscafo controllava il largo della costa, in particolare la zona di Porticello, perché era convinto che i latitanti non si rifugiassero in altre parti del mondo ma si nascondessero dove avrebbero potuto contare su di un reticolo di protezioni e aiuti. In altri termini, nelle zone di appartenenza.

Montana morì il 28 luglio, una domenica piena di sole, sotto i colpi di due killer a viso scoperto. Ecco cosa era la lotta alla mafia di quegli anni. Una sorta di sfida all’O.K. Corral per le strade di Palermo e provincia. Ma era una sfida impari perché i cattivi erano più dei buoni che soli, ogni giorno, dovevano guardarsi le spalle.

Per l’assassinio di Montana c’era però un sospettato per avere partecipato all’omicidio o avere favorito gli autori. Si chiamava Salvatore Marino, aveva 25 anni, giocava a calcio in una squadra appena promossa in Serie D.

Nella sua abitazione furono rinvenuti dieci milioni di lire arrotolati in un giornale del 30 luglio 1985 (che riportava, a caratteri cubitali, la notizia dell’omicidio di Montana) e altri 24 milioni di lire nascosti in un armadio. Gli inquirenti non lo trovarono a casa ma il giorno seguente Salvatore Marino si presentò spontaneamente in Questura. Ne uscirà, cadavere, il giorno dopo.

Nessuno, all’infuori dei poliziotti che effettuarono il fermo e interrogarono il giovane Marino, sa cosa sia realmente avvenuto nel segreto delle stanze e della camera di sicurezza della Squadra mobile in quelle dodici ore, le più nere della Questura di Palermo, tra il pomeriggio dell’1 e l’alba del 2 agosto 1985. La versione ufficiale degli inquirenti, che esclude maltrattamenti e addebita la morte del Marino “ad un collasso e a violente convulsioni”, cozza contro quella dei parenti della vittima, che parlano di una vera e propria “esecuzione” rifacendosi ai numerosi lividi (gonfiori al volto e alle labbra, escoriazioni al naso, tumefazioni ai piedi) sul corpo del loro congiunto. Fu rinvenuto cadavere su una spiaggia palermitana, quella di Sant’Erasmo, dove sarebbe stato ritrovato dagli uomini della Squadra mobile.

Per qualche ora, Marino venne spacciato per un immigrato africano, anche per il colore scuro della pelle.

Il 5 agosto successivo, con provvedimento del ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro, vengono destituiti il capo della Squadra mobile, Francesco Pellegrino, il capitano dei carabinieri, Gennaro Scala, e il dirigente della sezione anti-rapine Giuseppe Russo. A tutti viene contestato il reato di omicidio colposo.

Quello Stato, spesso assente o distratto, questa volta interviene subito e non poteva essere altrimenti. Troppo grande era stato lo sfregio alla credibilità dell’istituzione che pure aveva lasciato sul terreno tanti suoi servitori, in ultimo Beppe Montana. Ma la lotta alla criminalità deve sempre essere condotta nell’ambito delle norme e delle garanzie di rango costituzionale. Se, anche a fronte di dolorosi avvenimenti che non solo ti toccano personalmente ma che riguardano persone con le quali hai lavorato e rischiato la vita, quelle norme di condotta non si rispettano sempre e comunque, se sei venuto meno ai tuoi doveri, hai perso credibilità, hai perso la fiducia riposta in te e nel tuo compito.

Lo penso e lo scrivo con tutto il rispetto che ho sempre avuto per un’istituzione come la Polizia di Stato, non solo perché in essa hanno militato mio nonno Leonardo, come già ricordato, funzionari dotati di non comune spirito di servizio, nostri compagni di un’avventura professionale e umana straordinaria, ma anche perché, per oltre trentaquattro anni, la mia sicurezza è stata affidata al solerte servizio di scorta o di tutela di agenti della Polizia di Stato.

La morte di Salvatore Marino fu un duro colpo anche per noi. Il clima favorevole che aveva accompagnato il nostro lavoro si era ormai dissolto e i giornali, sempre i soliti, rinnovarono gli attacchi.

Ma non finì tutto con quella morte in Questura.

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