Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore


A Firenze Antonino Caponnetto aveva lasciato una moglie – non certo felice della sua partenza verso una destinazione così pericolosa – e tre figli. Per andare dove? Per venire a Palermo a sostituire il consigliere istruttore Rocco Chinnici che il 29 luglio 1983 Cosa nostra aveva fatto saltare in aria con un attentato alla libanese, un’autobomba fatta scoppiare in città, in mezzo ai palazzi, ai negozi, alle persone che a quell’ora uscivano da casa.

Ma Caponnetto faceva anche ritorno alla sua terra natia, la Sicilia, dove era nato il 5 settembre 1929, a Caltanissetta, una delle tappe della carriera del padre.

Riservato, schivo, l’arrivo di Antonino rese contenti, ma solo inizialmente, molti addetti ai lavori, imprenditori, commercianti, professionisti nell’orbita mafiosa e, forse, qualche avvocato penalista palermitano, dai quali fu visto e soppesato come un magistrato innocuo e incolore, di passaggio, uno che ci avrebbe messo chissà quanto tempo prima di impadronirsi della “materia”, capire la struttura e le dinamiche dell’organizzazione criminale che il suo predecessore aveva iniziato a contrastare con un gruppo di giudici istruttori. E comunque, sempre meglio lui “che quel rompiballe di Chinnici con la sua fissazione della mafia”, per giunta con due effe, come la pronunciava.

Per quegli “addetti ai lavori” e per tanti altri, dopo l’uccisione di Chinnici, la città di Palermo poteva tornare a respirare, a vivere se stessa come sempre, poteva tornare alla sua calma, alla sua indifferenza, alle sue abitudini, alla sua convivenza “tranquilla” con la mafia e i mafiosi.

Debbo essere sincero. Dopo avere appreso che era stato designato il dottor Antonino Caponnetto, sostituto procuratore generale in servizio a Firenze, e dopo averlo conosciuto personalmente, fu istintivo in ciascuno di noi fare il confronto con il suo predecessore.

Vedevamo una persona di una certa età, 63 anni, esile, non proprio in salute, del quale ignoravamo se fosse competente in materia di criminalità organizzata ‒ mentre Rocco Chinnici era aitante, fisicamente imponente, pieno di vitalità e molto esperto di mafia. E ci chiedevamo se il Csm avesse designato il magistrato giusto per sostituire il “nostro” Rocco Chinnici. Ma ci volle pochissimo per constatare di che pasta e tempra fosse fatto il nostro nuovo consigliere, al di là dell’aspetto fisico.

Aveva lasciato a Firenze la sua famiglia per condurre a Palermo una vita monastica, divisa esclusivamente tra l’ufficio e, per motivi di sicurezza, una spoglia stanza della caserma Cangialosi della Guardia di Finanza. Più che una stanza era quasi una cella: un lettino, un piccolo bagno e un comodino con i suoi libri, Le Confessioni di Sant’Agostino e La Recherche di Proust. La sera, lì in caserma, se arrivava entro le nove, a volte riusciva a trovare i piatti caldi della mensa dei finanzieri.

In generale, cercava di rispettare gli orari ma quando non ce la faceva se la cavava con un piatto freddo che gli facevano trovare nella sua stanzetta. I suoi unici momenti all’aperto, la sua ora d’aria, come quella dei carcerati, li trascorreva nel chiostro seicentesco del convento domenicano di Santa Cita (Santa Zita, più propriamente), trasformato in ospedale militare nel 1850 e, successivamente, nella caserma Cangialosi.

La sua dedizione al lavoro era davvero straordinaria. Antonino Caponnetto rimaneva in ufficio con noi, e più di noi, fino a tarda sera. Ci aveva perso quasi la vista a collazionare più e più volte quelle circa novemila pagine della ordinanza-sentenza che aveva aperto la strada al primo Maxiprocesso contro i boss di Cosa nostra.

Era prodigo di consigli, ci incoraggiava nei non rari momenti di difficoltà. Ci spronava a non mollare mai, a credere che il nostro impegno avrebbe potuto redimere, rendendola migliore, la nostra terra bagnata col sangue versato da tanti rappresentanti delle forze dell’ordine e da innocenti vittime del massacro voluto dai “Corleonesi”, scesi allora a Palermo per un regolamento di conti con le “famiglie” del capoluogo, per la conquista della supremazia nel campo della criminalità organizzata.

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