Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


La vecchia, l’antichissima cattedrale è deserta. Può cadere da un momento all’altro. Su una delle grandi colonne di pietra c’è scritto con la vernice: «W l’Inter». Anche lo spirito della misericordia se n’è andato. Tutta l’immensa scalinata e la piazza sono deserte, crepate da un’infinità di spacchi e di fessure che la gente vide orribilmente aprirsi sotto i piedi. Ora le fessure sono murate con la pece; tutta la piazza sembra listata a morte.

Dalla cattedrale comincia quella parte di Agrigento che sprofondò di colpo verso il basso, tutto un declivio della montagna per una larghezza di cinquecento metri ed una lunghezza di due chilometri. I cavalli di Frisia la sbarrano per ogni accesso; ci volevano delle bandiere rosse, ma nella confusione non se ne trovavano e i carabinieri allora legarono al reticolato una vecchia camicia rossa. Sembra la spoglia di un condannato.

Camminiamo dentro questa città deserta, precaria; le strade sono coperte da due dita di polvere ed i passi umani vi affondano, non fanno rumore. Tutte le finestre, i balconi, le porte, gli usci sono spalancati, ma non c’è un cigolio, nemmeno un alito di vento; all’angolo di una strada c’è ancora un carro ribaltato, i padroni lo stavano caricando, ma l’animale s’imbizzarrì rovesciandolo, tutte le masserizie sono ancora sparse per terra.

È incredibile quante scarpe vecchie si possano trovare nelle case: dovunque, nella polvere, ci sono scarpe, sandali, soprabiti, poltrone. In mezzo al selciato l’automobilina rossa a pedali di un bambino; probabilmente il ragazzo cercava di trascinarsela dietro nella fuga, ma il padre la scaraventò lontano con un calcio.

Nelle cucine ci sono ancora le pentole per il cibo che si stava apparecchiando quel giorno, le bombole di gas, le sedie rovesciate, i vasi dei fiori alle finestre. C’è una casa letteralmente spaccata in due come un cocomero, la frana ha staccato l’una metà dall’altra, le sedie sono rimaste in equilibrio sul pavimento. Sulla porta c’è scritto «Si loca».

Quel giorno la gente non sentì un boato, né vide la terra tremare. Non accadde niente di simultaneo, apocalittico; ma tutto lievemente, se ne accorsero quasi per caso.

La faccia della terra cominciò impercettibilmente ad allargarsi, a scivolare, prima un mattone si staccò lentamente dall’altro, un marciapiede si avvallò con dolcezza, poi una basola sprofondò, sul selciato si disegnò un filo di capello lungo due chilometri che attraversava tutta la città, che attraversava le strade, le facciate dei palazzi, la campagna, i tetti, i pavimenti delle stanze, le fognature. Il filo di capello continuò ad allargarsi, divenne una fenditura grossa come un dito, si sparpagliò di colpo in diecimila direzioni come le incrinature di un cristallo, continuò spaventosamente ad allargarsi.

Qualcuno inciampò in quella fenditura, credendo ch’essa ci fosse stata sempre; ma già qualcuno nelle case fissava ipnotizzato quella linea scura che si apriva sul pavimento, qualche altro era rimasto a guardare di colpo quella facciata di palazzo che si stava quietamente spaccando in due.

Qua e là cominciò a sprofondare la strada, gli edifici più alti cominciarono ad ondeggiare. Una cosa curiosa e raccapricciante: i primi a fuggire, pazzi di terrore, furono i gatti ed i cani, verso la campagna. In meno di cinque minuti circa quindicimila persone fuggirono da quella zona della città. Alcuni palazzi, che sempre più s’erano inclinati crollarono dietro di loro.

Ora tutto è immobile, deserto, come venne lasciato in quel momento, le porte spalancate, i filari dei pomodori secchi appesi alle finestre, le scarpe che si perdevano nella fuga e nessuno riusciva più a raccogliere. Lo spettro di una città sotto il sole a piombo.

Avanza un tintinnio, è un gattino grigio con un campanellino legato al collo; è finito qui per sbaglio, deve far presto ad andarsene poiché i grattacieli abbandonati di Agrigento, pullulano di topi feroci. Un giorno o l’altro bisognerà distruggerli con i lanciafiamme. Non resta che bruciare tutto, non c’è speranza.

Migliaia di rettangolini di vetro sono stati appiccicati alle fenditure delle strade e dei palazzi per controllare se la terra continua a sprofondare, e di quanti centimetri. Ma chi volete che abbia il coraggio di tornare ad abitare in questa parte della città? Si ha l’impressione che togliendo una pietra da uno spigolo, tutto questo groviglio di case, palazzi e tuguri debba crollare di colpo.

Ogni tanto arrivano tecnici da Roma o da Palermo ed eseguono cauti sondaggi: hanno ordigni strani, sonde sottilissime che arrivano a cento metri di profondità, misuratori acustici degli echi, idrometri, livelli elettronici, raschiano, trafiggono, ascoltano, computano; sembrano dei cerusici che battano con le nocche sulle spalle della montagna per auscultarne le tragiche malattie, diagnosticare il giorno in cui cominciò la corruzione della montagna e degli uomini che vi costruirono sopra.

Il primo marzo 1960, alle otto di sera, al viale della Vittoria di Agrigento, cinque revolverate uccisero il commissario Aldo Tandoj capo della squadra mobile. Il sicario era piuttosto maldestro, sparò tutti i colpi del caricatore sempre nella stessa direzione e allo stesso livello, sicché a mano a mano che il corpo della vittima si afflosciava i proiettili lo raggiungevano in zone più alte del corpo, secondo una sanguinosa linea retta.

Il primo ed il secondo colpo all’addome, il terzo al petto, il quarto alla gola, il quinto al volto. Il sesto proiettile, poiché Tandoj era già caduto, lo sorvolò e andò a colpire alla fronte lo studente liceale Ninni Damanti che si trovava a cinquanta metri dal declivio della strada. Lo uccise sul colpo.

La nazione allibì: per la prima volta la mafia osava colpire un rappresentante ufficiale dello Stato, sfidava cioè lo Stato stesso a venire quaggiù con tutta la sua potenza, ad imporre la sua legge, se ne era capace. L’emozione fu enorme, arrivarono inviati speciali persino da Parigi e Londra, giornalisti dei maggiori quotidiani europei che il giorno avanti erano stati inviati alle nozze di Margaret, a Londra, furono richiamati precipitosamente perché andassero ad Agrigento dove stava accadendo qualcosa di più sconvolgente.

Una data da ricordare nella storia della Patria. Agrigento: il luogo marcio dell’Italia dove lo Stato, erede di Mazzini, Garibaldi, della Giovane Italia, guardava la mafia nel bianco degli occhi. Ci furono esequie solenni, discorsi ufficiali, furono scritte cose molto nobili su questo popolo infelice al quale lo Stato italiano prometteva, se non il benessere, almeno la dignità di vivere, cioè finalmente il rispetto implacabile della legge contro qualsiasi malvivenza. Ponete attenzione alle date: marzo 1960.

Mentre lo Stato ribadiva in sede di Parlamento la sua solenne intenzione di schiacciare i reprobi e riaffermare il diritto dei cittadini contro qualsiasi sopraffazione, nella Valle dei Templi la devastazione edilizia, la clamorosa violazione di tutte le norme igieniche e panoramiche, l’irrisione, la beffa al diritto comune erano all’apice. Si murava il panorama, si costruiva nelle zone soggette alle frane, si elevavano grattacieli su una malferma crosta di terra, si firmavano deroghe e sanatorie per fabbriche realizzate in spregio alle elementari norme urbanistiche.

Nessuno potrà mai cancellare il segno di tanta corruzione. Quella mezza città morta e continuamente in putrefazione, resterà appesa al corpo di quell’altra metà di Agrigento che continua a vivere. Viva, ma sfregiata per sempre.

Nel cuore della Valle dei Templi, dove le guide turistiche compilate dalla Regione siciliana promettono al turista di ritrovare intatto il fascino dell’antica civiltà greca, a meno di duecento metri dal Tempio di Giunone, capolavoro dell’architettura mediterranea, sorge ancora un incredibile groviglio di cemento armato. Tre edifici, l’uno quasi aggrappato all’altro.

Fate conto che, sul volto della Gioconda di Leonardo, qualcuno abbia spiaccicato una mosca e che la sovrintendenza del Louvre abbia concesso la sua benevolenza alla schifosa operazione. L’offesa non è dissimile! Quegli edifici, sprofondati in mezzo alla valle e le cui sagome si profilavano dietro la prospettiva di ogni tempio, appartengono ad alcuni notabili di Agrigento.

Al momento in cui avvenne la gigantesca frana della montagna e tutti i lavori edilizi furono fermati, erano almeno due anni che quelle costruzioni erano in corso, poiché tanto ci vuole per uno sbancamento del genere, per gli scavi, le fondamenta, l’ossatura di cemento, il rivestimento. Nessuno però aveva mai fiatato ad Agrigento, o elevato una protesta, opposto un divieto, ordinata una demolizione, gridato allo scandalo.

Si ha l’impressione che ad Agrigento, se non fosse intervenuta la catastrofe, cioè quel plateale cedimento di mezza città, si sarebbe potuto smontare il tempio di Giunone, imballarlo e trasportarlo altrove; e probabilmente nessuno avrebbe mai opposto un rimprovero.

L’aspetto più drammatico di tutto lo scandalo è appunto questo: la definitiva remissività del cittadino, la sua rassegnazione dinnanzi al disastro, questa sensazione di impotenza dinnanzi alla violazione dei principi fondamentali del vivere civile.

Ad Agrigento si sono costruiti edifici di cemento e di privata proprietà in una valle che avrebbe dovuto essere considerata un altare incontaminato di bellezza; si sono costruiti palazzi a quindici piani dove il regolamento imponeva che se ne potessero realizzare solo cinque; si costruivano case e si scavavano fondamenta dove era persino vietato poter collocare tombe di cimitero.

Se la montagna avesse tardato un anno a franare, accanto ai templi avrebbero costruito anche un vespasiano a pagamento. Per dieci anni così, e l’anima del cittadino, che è la coscienza stessa della democrazia, era lentamente sfiorita, s’era definitivamente corrotta anch’essa. Come per un delitto o per il crollo di un edificio, per qualsiasi catastrofe umana, anche per la corruzione di un’intera città dev’esserci però una tecnica, una ragione d’essere. Non basta a spiegarla la paura dei potenti, gli inganni o i ricatti della politica. In realtà c’è una verità sociale più profonda. Un’illusione!

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