Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Osservando Palma di Montechiaro com’è sempre stata, com’è diventata e quello che sta per accadergli, aleggia nell’aria una clamorosa risata di scherno collettivo. Dagli al buffone! Sentite! Negli ultimi cinque o sei anni, migliaia di contadini che erano andati a spaccarsi la schiena in Germania, Venezuela, Francia, Svizzera, tornando a Palma di Montechiaro dapprima si sono costruiti un’orribile tana, poi hanno disperatamente cercato di nuovo lavoro nella campagna.

La terra era abbandonata quasi totalmente, le colture di cereali erano fallite, gli ulivi erano scarni e radi, i mandorleti secchi. Allora, guardando ad oriente, verso la plaga di Vittoria e Comiso, hanno provato ad imitarli, cioè hanno cominciato a provare le coltivazioni in serra: pomodori, insalate, melanzane, cetrioli, peperoni. La terra di tutta la plaga marina, protetta dai venti, era tiepida e grassa. Prima sono sorte dieci serre, poi cinquanta, cento, cinquecento, improvvisamente tutta quella grande plaga marina, per secoli abbandonata e miserabile, ha scoperto una incredibile prospettiva di ricchezza, proprio come era accaduto vent’anni or sono nella piana di Vittoria. Duemila o tremila persone hanno cominciato a lavorare in questo settore, con estrema pazienza, imparando a costruire le serre, imparando l’arte difficile di graduare il tepore, la ventilazione, i trapianti, il corso delle stagioni, i prezzi di mercato, le differenti qualità dei prodotti. Migliaia di uomini, che avrebbero probabilmente abbandonato Palma di Montechiaro seguendo le strade disperate di migliaia di altri uomini del territorio, sono così lentamente, umilmente tornati alla terra.

Mentre tutto questo accade a Palma di Montechiaro, cioè mentre si verifica il miracolo di una piccola popolazione, la più infelice e abbandonata d’Europa, che con infinita pazienza e senza aiuto di nessuno sta cercando di sopravvivere abbarbicandosi ancora più profondamente alla terra, in un altro posto di questa nazione, Palermo e Milano, si sta studiando il modo per distruggere tutto: un impianto petrolchimico proprio nella plaga marina.

Si chiama SARP e dovrebbe essere realizzato al cinquanta per cento con capitali della Regione e del petroliere Rovelli. Produrrebbe acetilene e plastica. Impiegherebbe circa millecinquecento unità lavorative. Nel progetto iniziale si annunciò che l’iniziativa industriale arrivava finalmente in quella plaga del diavolo per soccorrere l’essere umano e medicarne i terribili dolori.

Torniamo per un attimo ai tempi oramai lontani della grande idiozia collettiva e politica siciliana, quando si riteneva che l’industria, qualsiasi industria, potesse rappresentare la soluzione sociale d’ogni miseria e disperazione. Nessuno pensò allora che l’industria va collocata in un territorio, e di questo bisogna evitare la devastazione, proteggere le altre attività primarie, salvare la vocazione agricola, salvare i centri urbani dalla speculazione edilizia (che ha invece orribilmente sconvolto Siracusa) impedire che l’inquinamento diventi un pericolo mortale per gli esseri umani, che i veleni modifichino la fauna, che intossichino l’aria, il mare, gli animali, gli uccelli, i pesci, annientino qualsiasi prospettiva turistica, insomma che, attorno ad una piccola città di torri metalliche, ciminiere fiammeggianti, fetori, veleni, dove alcune migliaia di persone vivono passabilmente soddisfatte dagli alti salari, si estenda un territorio di campagne morte, di città devastate, di umanità impaurita. Nessuno di noi allora capì niente. L’industria chimica arrivò qui al Sud, perché al sud c’erano folle di miserabili manovali e braccianti disoccupati ai quali si poteva pagare un salario minimo, e c’erano coste deserte, e mare che nessuno proteggeva e città indifese. e tetra ignoranza politica. L’industria arrivò in un dilagare di applausi ciechi e ottusi, come le truppe della quinta armata americana quando avanzavano in mezzo alle macerie della città che il giorno prima avevano devastato con i bombardamenti. Taluni diranno che il mio è un discorso da brigate rosse, altri diranno che è invece un’apologia del fascismo. Gli imbecilli, quando non hanno argomenti, danno un’etichetta all’avversario, e chiudono.

Qui a Palma di Montechiaro vogliono ora costruire lo stabilimento petrolchimico: i progetti ed i capitali vengono da Milano, e dà loro soccorso in denaro e plauso la Regione siciliana, con alcune centinaia di miliardi. Del resto il calcolo è semplice: qui nel territorio di Palma, dove addirittura venne tenuto il convegno della fame, e dove campa la popolazione più disperata, sopraffatta, abbandonata di tutta Europa, la mano d’opera è ancora a buon mercato. Il povero cafone sottratto all’emigrazione, bacerà i piedi di coloro che verranno ad offrirgli un giusto salario industriale fino a casa. I tremila contadini che già lavorano nelle serre, e forse già guadagnano quanto un buon salario industriale, saranno in parte assorbiti dal nuovo congegno, gli altri spariranno, chissà per quale strada della terra e spariranno le migliaia di serre, l’aria diventerà fetida.

Sarà difficile capire se nella schifosa nuvola che coprirà l’intera valle fino al mare, primeggeranno gli odori acidi e inediti delle ciminiere o quello antico e grave dello sterco. Giorno dopo giorno, il mare diventerà anch’esso veleno. Quel luogo fantastico, con quel castello in cima, quel baratro senza eguali in tutta la costa siciliana, quel golfo meraviglioso di sole e di vento, diventerà probabilmente l’approdo per piccole petroliere. Stavolta però abbiamo l’impressione che i contadini non muoveranno un passo dalla terra che hanno ritrovato. Anche i contadini di Palma sanno quello che è accaduto a Seveso, sanno quello che sta accadendo a Marina di Melilli… Hanno patito secoli di rimbambimento politico.

Prima i Gattopardi che possedevano tutto, arrivavano per un mese d’estate come domineddio, per controllare il reddito del feudo, esigere le gabelle, e sparivano… Poi il fascismo che probabilmente pensò a Palma di Montechiaro come ad un paese di luce e di contentezza, chissà dove, nel quale non poteva che esserci felicità, e non cercò nemmeno di sapere se esistesse.. Infine i politici del dopoguerra che fecero la legge speciale e subito crearono lo strumento perché i beneficiari. invece di applicarla, potessero scannarsi per anni… Dopo infinite generazioni che hanno patito fame, malattia, stupidità, paralisi, rassegnazione, solitudine, distacco, un’esistenza non molto dissimile dalla bestia, la gente di Palma di Montechiaro comincia a capire come può essere il destino civile di una popolazione e le cose alle quali un essere umano ha diritto dalla società.

Anzitutto l’aria per respirare, la terra e il mare accanto ai quali è nato e vive, poi l’acqua, la casa, le fognature, le scuole per i figli, l’ospedale per i suoi dolori, le strade, una amministrazione giusta e imparziale, il lavoro secondo la sua capacità e pazienza umana, e la libertà di scegliere anche il suo destino. Scendendo per i tornanti verso oriente incontrammo un piccolo, vecchissimo contadino, che camminava adagio per la salita, caricato di tre sacchi.

Accanto gli correva un cagnolino minuscolo e allegro che continuamente lo sopravanzava, tornava indietro, lo odorava, spiccava piccoli balzi di contentezza. Fermai il vecchio: «Ma che se ne fa di quel cane?» «Mi tiene compagnia, non mi lascia mai!» «E possiede quello soltanto?» «No, no… altri sei o sette, la mattina me li porto con me sulla terra!» «Per compagnia?» «Per difesa, per allegria. Il cane è più amico dell’uomo. Questo è il più piccolo e gli voglio molto bene.» «E che fanno tutti questi cani di notte soli e abbandonati nella campagna, nel paese?…» «Camminano, corrono, giocano, si cercano il cibo, fanno all’amore, figliano, dormono, litigano, aspettano che si faccia giorno per cercarsi di nuovo il padrone e tornare nella campagna.

Fanno quello che fanno gli uomini

A Palma di Montechiaro c’è un solo accalappiacani municipale. Ogni tanto ne prende tre o quattro. Ma i cani sono quattromila cinquemila, chi li può contare? Ed allora, una volta tanto, ogni mese o due, si organizza una battuta notturna con i vigili urbani, anche di Agrigento, con i carabinieri, forse anche i pompieri della provincia, si sbarrano le strade, i vicoli, le traverse, e i cani vengono stanati a centinaia, corrono, corrono, diventano un branco sempre più grosso e terrorizzato, centinaia e centinaia, un galoppo affannoso, uno scalpiccio che non finisce mai, un polverone. L’immagine è spaventosa, poiché sono esseri viventi.

Ricordano, le immagini più terribili della storia umana recente: ad ogni angolo un soldato col mitra e l’elmetto di acciaio, e per la strada, da tutte le case, da tutti i vicoli, un fiume di esseri umani, gli ebrei, le donne con i bambini in braccio, i vecchi arrancanti e affannosi con gli occhi spalancati, i ragazzetti che cercavano una mano per afferrarla ed averne un attimo di coraggio… Stivati in alcuni camion i cani, cinquecento, settecento, mille in una notte, vengono portati lontano, in qualche valle dell’agrigentino, dove c’è una grande fossa, e lì uccisi. Così è Palma di Montechiaro: la miseria, la bellezza, il dolore, la speranza, l’orrore…

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