Mancavano pochi minuti alle dieci di sera, quando Tobias R. si avvicina al La Vorte, un bar nel centro di Hanau, paesone vicino Francoforte sul Meno, spara e uccide Kaloyan Velkov. Nella stessa strada fredda Fatih Saraçoğlu e Sedat Gürbüz, nel Midnight, un locale dove si fuma il narghilè. Poi sale in macchina, esce dal centro della città e raggiunge l’Arena bar. Lo segue Vili Viorel Paun, che si è accorto degli spari e con la sua auto s’incolla all’attentatore chiamando la polizia. Sceso dalla macchina, Tobias R. si accorge della sua presenza e lo ammazza.

Ucciderà altre cinque persone: Mercedes Kierpacz, che stava andando a comprare una pizza per i suoi bambini, Gökhan Gültektin, Ferhat Unvar, Said Nesar Hashemi e Hamza Kurtović. Poi, torna a casa, lì vicino. Quando la polizia farà irruzione qualche ora dopo scoprirà che, prima di togliersi la vita, ha ucciso anche la propria madre. Esattamente un anno fa, nel «giorno per noi più terribile in tempo di pace. Sino a oggi ricordavamo il 19 marzo 1945, quando le bombe distrussero la nostra città, il 19 febbraio scorso questa città è cambiata», come ha detto Claus Kaminsky, il sindaco, dal Rathaus, il municipio, poche centinaia di metri dal Midnight.

Xenofobia

Un anno fa, imbottito di chissà quali teorie demenziali e razziste, sintetizzate in un documento che aveva pubblicato on-line, poi rimosso dalla polizia, Tobias R. pianifica l’azione, sceglie con attenzione i luoghi dove, in poco tempo, può raggiungere più persone, che seleziona per il colore della pelle, per i posti che frequentano. La distanza tra i luoghi scelti dal terrorista si percorre in poco tempo anche a piedi. Si lascia il Meno alla propria sinistra e alla destra le villette con giardino pian piano spariscono per far spazio all’edilizia popolare anni Settanta. In auto, è questione di minuti.

Tobias R. ammazza deliberatamente nove persone, la più grande ha 37 anni, la più giovane appena 21. Fatti simili non sono casi isolati nella Repubblica federale: subito dopo la riunificazione gli assalti della destra a Rostock e i morti di Solingen. Senza dimenticare i morti della cellula terroristica di matrice neonazista Nsu e, ancor più recente, i fatti di Chemnitz, l’omicidio del presidente della provincia di Kassel, Walter Lübke, e il fortunatamente fallito (ma solo per caso) attacco alla Sinagoga di Halle, che ha comunque causato la morte di due persone. Solo per citarne alcuni. Fatti diversi tra loro, per modalità di esecuzione e per tipologia degli attentatori. A legarle, però, è sempre l’idea che qualcuno non debba far parte della comunità, che sia un pericolo. Anche se è nato e cresciuto qui. In Germania, in Europa.

Ricordare le vittime

«Cose del genere non accadono per caso, sono anni che la politica avvelena il clima, con discorsi sull’invasione e criminalizzando migranti e stranieri», dice Newroz Duman, 31 anni, animatrice dello spazio aperto di fronte al Midnight. Dove, dalla scorsa estate, c’è anche Eugenio Marino, nato nel 1998, mamma polacca, papà calabrese: «Non sono tedesco, sono italiano, personalmente non ho mai vissuto episodi di razzismo. Però il colore della pelle è lo stesso. Questi ragazzi sono stati ammazzati perché avevano la pelle un po’ più scura. E al Midnight a fumare il narghilè ci sono andato anche io. Papà lo sapeva, mi ha chiamato subito».

Sin dai primi giorni dopo la strage, parenti delle vittime e attivisti hanno cercato di non far dimenticare i nomi dei morti: «Per noi c’è un solo modo di raccontare questa storia e, cioè, dalla prospettiva di chi è morto, ecco perché chiediamo a stampa e istituzioni: pronunciate i loro nomi. In passato, è successo l’opposto: erano citati i colpevoli, le vittime dimenticate quasi subito» ancora Newroz.

Hanno affittato uno spazio proprio davanti il primo dei luoghi in cui l’attentatore ha colpito. Qui le famiglie si sono incontrate nell’ultimo anno, si sono fatte coraggio e hanno chiesto innanzitutto che la memoria dei loro cari non andasse persa. Ogni 19 del mese hanno ricordato i loro familiari. Pronunciare i nomi significa raccontare storie, evitare che diventino solo numeri nelle statistiche. È quello che in Italia abbiamo fatto con le vittime di mafia. Ci sono riusciti: da un anno stampa e politica si sono accorti di queste nove persone, ne hanno raccontato sogni e speranze.

Si scopre che il bisnonno di Mercedes, di origine rom, è morto ad Auschwitz. Che altri erano musulmani. Una grande croce bianca ricorda invece il luogo dove è morto Vili. Di fronte al Rathaus, sulla statua dei fratelli Grimm, che nacquero proprio ad Hanau, sono state collocate le foto delle vittime: «Non erano stranieri».

La memoria non basta

Ma la memoria non basta, le famiglie chiedono soprattutto giustizia. «Tobias R. è un razzista. Lui ha materialmente ucciso mio fratello. Il mandante è la Germania».

È duro Çetin Gültektin, fratello di Gökhan, nati entrambi ad Hanau, ma ha le sue ragioni. «Quella sera nessuno ci ha informato, il giorno dopo ci è stato detto che mio fratello era morto. Poi più nulla. Una settimana dopo mi ha chiamato l’impresa funebre per dirmi che il corpo era ad Hanau. Avevano fatto l’autopsia e non ci avevano detto niente. È stato un secondo attentato: rivedere mio fratello con tutte le cicatrici dell’autopsia. Ci ho messo più di tre ore per preparare il corpo per la sepoltura secondo il rito islamico. Il procuratore disse di aver informato le famiglie, poi si è corretto: solo alcune». La rabbia monta, la sensazione è quella di essere cittadini di seconda classe. Del resto, la morte dell’attentatore priva i familiari anche di un processo con il quale provare ad elaborare questa tragedia.

Troppe cose non quadrano nella ricostruzione della polizia, sin dai primi mesi. Perché, ad esempio, quella sera nessuno rispose alle chiamate di Vili. Il padre le ha trovate nel suo cellulare, quando la polizia glielo ha riconsegnato. Per mesi il ministro dell’Interno dell’Assia ha difeso senza se e senza ma l’operato delle forze di sicurezza.

Kaminsky è un politico di lungo corso, in carica dal 2003, misura le parole ma è netto: «Sapere come sono andati i fatti è una condizione essenziale per elaborare questi lutti. Penso sia scandaloso che il ministro per mesi abbia negato ogni inefficienza. Se non ci fosse stata la pressione delle famiglie e degli attivisti, il ministro non avrebbe mai ammesso il problema di personale nella linea per le emergenze».

Ancora non è chiaro come sia possibile che l’attentatore avesse un porto d’armi pur essendo già noto alle forze di polizia come un soggetto a rischio. E tanto altro ancora. «Ancora non ho pianto mio fratello. Potrò avere pace solo quando avrò risposte e saranno prese conseguenze precise: a uno come quel razzista il porto d’armi non dovrebbe essere concesso. Ho un figlio che è un po’ più grande di alcune delle vittime: come faccio a essere tranquillo?» ancora Çetin. «È difficile sentirsi al sicuro. Poche settimane dopo la strage, sul ponte dell’autostrada è comparso uno striscione: 19 febbraio Hanau, 19 marzo Offenbach, dove vivo a pochi chilometri da qui». A parlare è Seda Ardal, trentun anni, tra le prime a connettere i fatti di Hanau a un problema più generale in un editoriale sul settimanale Freitag: «Almanya, (il nome della Germania in turco è diventato slang per il rapporto degli immigrati con la realtà tedesca, ndr) è questa la tua solidarietà?»

Serpil, mamma di Ferhat, ha dato vita a un progetto, la Bildungsinitiative, per raccontare il razzismo nelle scuole e cercare anche di offrire un sostegno a chi ne è vittima. È impegnato anche Eugenio: «Ci incontriamo una volta a settimana. Appena ieri abbiamo incontrato studenti in una scuola, ricordando quello che è successo il 19 febbraio e abbiamo distribuito un questionario sul razzismo».

La differenza con il passato sta proprio in una consapevolezza nuova: «Sono nato qui, ho studiato qui: che devo fare ancora per essere considerato integrato? Ma se qualcuno crede che ci limiteremo a chinare la testa e piangere in silenzio i nostri morti, si sbaglia», dice Çetin.

Non è più il tempo di restare zitti, lavorare e ancora lavorare. Era solo una questione di tempo: le vittime non erano straniere. Del resto, molti erano nati in Germania. Lo ha scritto con geniale semplicità Fatma Aydemir: «Voglio rubare il lavoro ai tedeschi. Non voglio il lavoro che loro hanno stabilito per me».

Era, appunto, solo questione di tempo. Hanau sta già cambiando la Germania.

 

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