Daniel Donskoy è uno degli attori televisivi più promettenti della Bundesrepublik: nato a Mosca da una famiglia ebraica, oggi vive fra Berlino e Londra. Oltre a lavorare nel cinema, Donskoy è musiscista e conduce un talk show dedicato all’ebraismo in Germania, Friday Night Jews Donskoy parla un tedesco disseminato di espressioni e mezze frasi in inglese. Gesticola molto mentre parla, soprattutto quando spiega complesse questioni politiche.

Daniel, come va?

Ho passato gli ultimi quattro mesi a recitare in latino per la serie Netflix Barbarians. È stato molto difficile, ma anche molto divertente: interpreto un teutone cresciuto a Roma. Fun fact, visto che siete un giornale italiano: tutti gli altri attori che interpretano romani sono italiani. Tutti grandi attori: Giovanni Carta, Alessandro Fella…  c’è di buono che il latino è difficile anche per loro, imparare i monologhi latini a memoria non è facile. Non invidio davvero chi ha dovuto farlo a scuola.

Il suo curriculum è insolito: da un lato recita in grandi serie internazionali come Barbarians e The Crown, dall'altro in gialli della tv pubblica come Tatort (una serie storica della televisione tedesca, ndr). Che differenze nota fra il sistema tedesco e il circuito straniero?

Penso che le differenze tra la Germania e il resto del mondo consistano più che altro nel pubblico. Certo, se produci in Germania per un pubblico al cento per cento tedesco devi tener conto che vuoi raggiungere un pubblico prevalentemente bianco e anziano, l’audience tipica delle emittenti pubbliche. Il pubblico tedesco ha le sue abitudini. Sarebbe interessante vedere cosa succederebbe a mostrare soltanto prodotti stile HBO: cosa succederebbe?

Penso che ci siano grandi differenze. La prima sono i soldi: se Netflix sa di stare producendo The Crown per un pubblico globale, il budget sarà totalmente diverso.

E poi c’è la paura! Penso che la scena artistica in Germania sia spesso piena di paure: la paura di fare qualcosa di sbagliato, la paura di saltare all’occhio, di fallire. Qualche volta sembra che qui in Germania si abbia semplicemente paura di sognare.  

Dev’essere faticoso.

Sì, è davvero faticoso. Per dire, ho vissuto in Inghilterra per molto tempo e ora vivo tra lì e Berlino. L’Inghilterra è molto conservatrice e ha una società molto più classista di quella tedesca, eppure sulla scena culturale e artistica c’è stata una palese rivoluzione progressista. Il risultato è che tutti vogliono vedere serie e film britannici!

Quest’anno ha presentato il premio cinematografico tedesco, parlando moltissimo di fluidità di genere e presentandosi vestito con una gonna. Che feedback ha ricevuto?

Il discorso della fluidità è molto importante per me, perché come attore comunque lo sei di professione. La fluidità va coltivata, perché le persone hanno in sé diverse sfaccettature. E questi sono argomenti che tengo molto a porre, perché li sento nel cuore.

D'altra parte quando li pongo, ho anche il problema che alla Germania piace molto, troppo metterti in un cassetto. In realtà è già considerato “troppo” che io sia musicista e attore, oltre che conduttore del talk show Friday Night Jews.

Per noi è importante rappresentare le minoranze mentre ci divertiamo, affrontare problemi di identità e ispirare le persone che poi guideranno il cambiamento sociale. Naturalmente non sto lì a sbraitare “L'industria cinematografica tedesca è troppo bianca! Non siete in grado di cambiare!”. Serve un modo umoristico per far riflettere la gente.

Tu sei sia musicista che attore. Trovi il settore musicale tedesco meno provinciale della Tv?

Non voglio definirla provinciale. Ma sono due le cose che hanno abbastanza successo in Germania: gli “Schlager” (un genere di pop tedesco che si è diffuso a partire dagli anni Cinquanta) e il rap. La mia musica è in inglese e tutto ciò che non è cantato in tedesco non è percepito come autentico.

Ecco la categorizzazione: se sei tedesco, devi cantare o scrivere in tedesco. È interessante, perché in realtà siamo uno dei più grandi mercati del cinema e della musica in Europa, ma non tutti gli artisti lo riflettono nella propria percezione di sé.

Anche se i festival internazionali amano mostrare film tedeschi, e la gente vuole venire a Berlino, è raro che gli artisti abbiano un approccio da «Yes, we can do it!». Certo, ogni cineasta tedesco sogna di vedere il proprio film tedesco agli Oscar, ma non ha il coraggio di dirlo.

Perché questa paura?

È una questione culturale, anche solo per come si è sviluppata la società del dopoguerra. L'industria è stata ricostruita, ma non è avvenuto lo stesso per il pensiero libero, la fantasia.

Ai tedeschi è stato insegnato che se fanno qualcosa di sbagliato, succederà qualcosa di molto brutto. «If you make a mistake, there’s death and destruction». Anche la Riunificazione non è proprio riuscita: ci sono così tanti problemi e conflitti all'interno della società tedesca che è diventato davvero difficile poter dire: “Noi, come industria mediatica, come Germania, uniti rappresentiamo questo”.

È l’aspetto che cerca di esplorare anche nel talk show Friday Night Jews? Coi suoi ospiti affronta anche le faglie e le diversità all'interno della comunità ebraica tedesca.

È molto importante per noi. Mi sono guardato un po’ di documentari televisivi sugli ebrei tedeschi, e tutti questa voce narrante molto seria, totalmente morta.

Nessuna di queste rappresentazioni ha a che fare con la realtà della mia vita. Non vado in sinagoga e non vado nei supermercati kosher. Mi sento quasi come membro del mainstream culturale, però non lo sono davvero.

Era questo quel che volevamo mostrare con Fnj: sì, la gente parla tedesco, ti assomiglia, ma ha un approccio culturale diverso. Doveva anche essere divertente, non coperto dal solito colore saturo della tv pubblica, come lo skyline di Berlino in inverno; argomenti complessi, confezionati in modo divertente in modo da poterli assimilare.

La infastidisce di più quando le fanno il terzo grado in Germania sulla sua identità ebraica, oppure quando deve raccontare all’estero della sua esperienza da tedesco ebreo?

Sicuramente dovermi spiegare in Germania. Ho rilasciato molte interviste sull’ebraismo dopo Fnj, ma dopo un po' non sapevo davvero cos'altro dire. In Germania, ogni volta che c'è un attacco antisemita, ricevo quattro o cinque richieste di intervista, e vorrebbero che dica qualcosa come rappresentante degli ebrei in Germania. Non voglio, non lo posso fare.

Posso parlare della parte della mia identità che è ebraica. Ma questa è appunto solo una parte della mia identità, e non voglio essere un rappresentante. Un rabbino può parlare in modo rappresentativo per una specifica comunità, io no. Parlare di ebraismo è difficile in Germania, c’è una cappa di "cautela" e "attenzione", e non è divertente.

Tempo fa ero seduto in un ristorante con degli italiani che recitano in Barbarians. A un certo punto uno ha detto «Aspetta, quindi sei ebreo?»; allorché io ho risposto «Sì» e lui ha detto «Ah, forte», e la conversazione è finita lì. È stato fantastico! Normalmente sei già pronto a questa risposta: «Oh, sei ebreo? Interessante. Sono stato a Tel Aviv una volta...». A quel punto io direi: «Bene, fantastico! E quindi? Vai a comprarti un cazzo di Felafel!»

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