Dominik Leusder, economista del think tank berlinese Dezernat Zukunft e ricercatore alla London School of Economics, affronta un argomento particolarmente spinoso per il nuovo governo tedesco: il debito pubblico e le regole fiscali che determinano gli investimenti, sia per la Germania che per l’Unione europea.

Cominciamo dalla sua opinione sul contratto di governo. Come valuta il capitolo sull’economia?

Pare che il nuovo governo tedesco abbia cambiato linea in campo economico. Sembra anche esserci un riferimento a una proposta di Dezernat Zukunft. Vogliamo  cambiare il modo in cui viene calcolata la componente ciclica del freno costituzionale all’indebitamento. Potenzialmente ciò permetterebbe allo stato spendere di più.

Qualche piccolo riferimento dimostra anche la volontà di tener conto delle «esperienze degli ultimi dieci anni». Vorremmo naturalmente capire cosa significhi concretamente: quali conclusioni si sono tratte da quel periodo? Rimane tutto da vedere, ma alcuni segnali incoraggianti suggeriscono che l’ortodossia sposata dal precedente governo stia cominciando ad indebolirsi.

Dal contratto sembra che non si voglia discutere di nuovo debito comune europeo e nuovi Recovery Fund. Una notizia che è stata accolta piuttosto negativamente in Italia. Pensa che ci sia qualche margine di manovra?

Non farò supposizioni sull’opinione personale dei singoli politici. Tuttavia, sembra che anche tra gli ex falchi fiscali si stia diffondendo la convinzione che le regole fiscali europee e tedesche debbano essere riviste.

Lo si capisce da alcuni scritti pubblicati negli ultimi mesi. Un economista come Lars Feld, che di solito rappresenta posizioni di destra, ha pubblicato un articolo insieme a un economista come Marcel Fratzscher, che in genere sposa cause socialdemocratiche.

Hanno concordato sul fatto che si debba trovare un modo per aggirare la regola del freno al debito. La stessa cosa avviene con le regole europee: coloro che sostenevano una linea dura, incluso il direttore del Mes Klaus Regling, hanno ammorbidito le proprie posizioni.  

Le posizioni di molti politici sono diventate meno distinte. C’è chi crede che sia urgente una riforma complessiva delle regole fiscali e chi la vede meno necessaria. Tutti però dovranno tenere conto di due elementi: il fatto che tanti stiano aspettando una riforma, ma anche la possibile reazione della Corte costituzionale tedesca al tentativo di infrangere la regola del debito, scritta nella Costituzione.

Secondo lei esiste dunque un consenso sulla revisione delle regole del debito? Oggi molti consiglieri economici nel ministero delle Finanze sono nomine di Olaf Scholz.  Cosa cambierà con il nuovo ministro liberale Christian Lindner?

È la domanda da un milione di dollari. La mia esperienza ovunque, sia in Germania che in Italia, è che i tecnici incaricati di attuare queste regole siano sempre un po’ più refrattari al cambiamento dei politici di turno: è il loro modo di esercitare potere nei ministeri.

Certo, sono figure che restano in carica anche quando un governo cambia, ma penso che anche i funzionari possano ormai essere persuasi della necessità di un cambio di regole. Molto dipenderà dalla prosecuzione del ricambio generazionale a favore di esperti più giovani e meno suscettibili alle opinioni ortodosse, sia al ministero che in cancelleria.

Un problema chiave dell’economia tedesca è la mancanza di investimenti domestici e il fatto che buona parte del capitale tedesco confluisca verso progetti all'estero. Quale sarebbe l’effetto di investimenti interni più espansivi su paesi come l'Italia, che ad oggi recepisce molti investimenti tedeschi?

L’Italia non è stata inondata di denaro tedesco quanto paesi come la Spagna o la Grecia, o anche gli Stati Uniti.

Lei sottolinea un grande problema: abbiamo un’economia orientata verso l’export, basata su un’industria automobilistica che essenzialmente vende un prodotto del XIX secolo in un mondo in cui la maggior parte dei profitti è conseguita da imprese ad alta intensità tecnologica, o che più in generale si basano su diritti derivanti da proprietà intellettuali.

Oggi ci sono un sacco di fattori che potrebbero sconvolgere la classica catena di valore dell’industria manifatturiera tedesca. La Germania è tristemente impreparata a eventuali rischi perché gli investimenti in capitale fisso (cioè in tecnologia e innovazione) sono stati incredibilmente bassi negli ultimi decenni.

Se dovessi riassumere l'eredità negativa dell’era Merkel, indicherei esattamente questa incapacità di mobilitare investimenti privati. La scarsa domanda pubblica di capitale, che stimolerebbe anche la domanda privata, è la causa della carenza di investimenti in progetti redditizi all’interno dei confini nazionali. è quello che accade per esempio nel caso delle infrastrutture digitali.

Supponendo che l’industria tedesca riesca effettivamente a modernizzarsi: molte imprese italiane sono parte delle catene di valore tedesche, ad esempio producendo componenti per il settore automobilistico tedesco. Come si riverbererebbe sull’industria italiana la decisione delle imprese tedesche di produrre auto elettriche?

L’Italia è particolarmente vulnerabile all’elettrificazione della catena del valore tedesca.

La struttura dell'industria italiana rende molto difficile investire in nuove tecnologie, un fattore indispensabile se si vuole rimanere competitivi sul mercato.

Questo problema ha in parte a che fare con la dimensione delle imprese italiane e il fatto che gran parte di esse siano a conduzione familiare. La Germania è un caso analogo, ma i proprietari di norma assumono manager professionisti che insistono per reinvestire i profitti nell'innovazione.

La struttura non meritocratica delle aziende è un ostacolo enorme. Non voglio esagerare con il cliché libertario della distruzione creatrice, secondo il quale la crescita economica dipende dalla distruzione di aziende poco efficienti dalle forze di mercato.

Ma l’unica speranza per l’Italia sta forse negli investimenti del Next Generation Eu e in un cambiamento della vostra politica fiscale. Non penso però che possa bastare. Se la Germania dovesse trascinare i piedi sulla transizione all’elettrico, l’Italia potrà guadagnare un po’ di tempo. Ma c'è un vantaggio enorme nell'essere un first mover in questo tipo di mercati, e c'è ancora tempo per sfruttarlo.

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