In un articolo apparso il 28 ottobre sulle vostre pagine a firma Alberto Grandi, l’Associazione Rurale Italiana viene citata tra quelli che strepitano a difesa di un’agricoltura – quella contadina che non si ha il coraggio di nominare – inefficace ed assistita. Rispondiamo con qualche considerazione solo ora perché questo è l’inizio dell’annata agraria e abbiamo molto lavoro nei campi in una stagione che si annuncia non facile.

I luoghi comuni fanno più danni all’agricoltura che la grandine. In queste ultime settimane c’è stato un repertorio abbondante di questi luoghi comuni, alcuni vecchi come quelli legati all’imminente arrivo di una penuria alimentare in Italia a causa del grano bloccato nei porti dell’Ucraina, altri che hanno ridefinito  in tutte le salse la sovranità alimentare, pochi si sono presi la cura di “risalire alle fonti”.

Sappiamo che c’è una favola che viene ripetuta, quella che in agricoltura “grande è bello”, che “agricoltura 4.0” è la soluzione e che in definitiva “il mercato regola ogni cosa” o più brutalmente “salta chi può, in fondo le piccole aziende sono condannate a sparire”. Dal 1982 al 2020 sono sparite due aziende agricole su tre e tra il 2010 ed il 2020 abbiamo perso oltre un milione di posti di lavoro, in compenso le giornate di lavoro pro-capite sono aumentate del 19,6 per cento. Meno occupati, più intensità di lavoro per ogni persona che resta.

Cancellate le piccole ma, negli ultimi dieci anni, sono aumentate del 17,7 per cento quelle con una dimensione totale superiore ai centro ettari, facendo aumentare così il grado di concentrazione della terra agricola in poche mani.

Queste aziende sono solo 18.230 (pari al 1,6 per cento del totale delle aziende) e si dividono il 30 per cento della Sau nazionale. L’Italia non è l’Inghilterra, da noi restano comunque circa 900mila aziende di piccole dimensioni che sono ancora circa l’80 per cento del totale delle aziende.

Molti politici nel lontano ‘68 avevano previsto la totale sparizione delle piccole aziende prima di vent’anni. Su questa previsione sono state basate le politiche agricole nazionali ed europee da allora, previsioni smentite: le cosiddette piccole e piccolissime aziende producono da sole circa un terzo del valore totale della produzione agricola nazionale, cioè tra 15 e 20 miliardi di euro.

Almeno 1.459.588 persone lavorano in aziende a conduzione familiare (il 98,3 per cento del totale), fornendo circa il 70per cento delle giornate di lavoro totali. La presenza della manodopera non familiare, per un totale di 1.295.753 persone, di cui il 30 per cento al Nord ed il 56 per cento (circa) nel Mezzogiorno, è per oltre il 66per cento costituita da lavoratori assunti in “Forma saltuaria”, cioè braccianti giornalieri (quelli legali che risultano all’Istat, sono da questo conteggio esclusi però quelli illegali, schiavi o clandestini). Starete certamente a pensare alla Puglia dei caporali. La regione con il più alto numero di presenza di lavoratori agricoli extraeuropei è l’Emilia-Romagna (31.441).

Ma il luogo comune più insultante è quello che racconta che le piccole aziende agricole – l’agricoltura contadina – vivono di sovvenzioni sulle spalle degli italiani. Le scelte di politica agricola dell’UE – da dove provengono la quasi totalità delle risorse finanziarie per l’agricoltura -  hanno in Italia un peggioramento con l’effetto di aumentare la concentrazione dei sostegni su un numero ridotto di aziende. Secondo la famosa proporzione che misura la ripartizione dei soldi comunitari nell’agricoltura italiana, il 20 per cento dei beneficiari riceve l’86 per cento dei soldi Pac, con aziende che ricevono oltre 2 milioni di euro all’anno, mentre al restante 80 per cento va un misero 14 per cento, , il risultato questo ampiamente prevedibile poiché il sostegno è basato in maniera prioritaria sul numero di ettari di ogni azienda. Le piccole aziende quindi ricevono spesso niente, infatti l’87 per cento delle aziende riceve meno di 5.000 euro all’anno di sostegno, mentre secondo i dati relativi alla Pac in vigore, 80 aziende che ricevono più di 500.000 euro all’anno si dividono oltre 72 milioni di euro

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