Il Rapporto sull’integrazione economica europea di Enrico Letta, presidente dell’Istituto Jaques Delors, è al tempo stesso un documento economico e politico. E tratta gli stessi argomenti che presumibilmente saranno oggetto del Rapporto sulla competitività che Mario Draghi sta predisponendo.

Entrambi partono da due dati di fatto. Il primo è il costante declino della competitività dell’economia europea rispetto a Stati Uniti e Cina, che si traduce in una crescita inferiore della produttività e quindi del benessere economico dei suoi cittadini.

Tra il 1993 e il 2022, il Pil pro capite degli Stati Uniti è cresciuto del 60 per cento, più del doppio che in Europa (con l’Italia fanalino di coda). Una maggiore produttività aumenta il reddito pro capite, e permette di finanziare il welfare senza provocare tensioni sociali: altrimenti ogni redistribuzione del reddito diventa un gioco a somma zero, socialmente e politicamente difficile da realizzare.

Il Fondo monetario internazionale prevede che anche quest’anno e il prossimo la crescita del Pil negli Stati Uniti, rispettivamente del 2,9 e 1,9 per cento, superi quella europea (0,8 e 1,5 per cento); con l’Italia che, nonostante il Pnrr, ritorna allo zero-virgola (0,7 in entrambi gli anni, per poi rallentare ulteriormente nel 2026 con l’esaurirsi del Pnrr).

L’economia mondiale

Il secondo è il profondo mutamento nella struttura e negli andamenti dell’economia mondiale che ha reso obsoleti i principi e le regole fondanti del mercato unico.

Con l’esaurirsi della globalizzazione, e l’emergere dei rischi geopolitici, è venuta meno la forte domanda di beni europei da parte dei paesi in forte crescita noti come BRIC (Brasile, Russia, India, Cina); la Cina poi, da mercato di sbocco per le imprese europee, si è trasformato in un loro temibile concorrente. Il crollo della natalità in Europa (si è passati dai 4,7 milioni di neonati del 2008 ai 3,8 del 2022) ha reso evidente il problema demografico: il rapido invecchiamento della popolazione comporta infatti un aumento dei costi della sanità, previdenza e assistenza, che la pandemia da Covid ha ingigantito.

In assenza di una crescita del reddito pro capite delle nuove generazioni, la demografia rende le finanze pubbliche alla lunga insostenibili, e crea tensioni sociali. Si è sottovalutato il costo della transizione ambientale che i cittadini europei non sono disposti a pagare, e dei massicci investimenti necessari a costruire un’economia verde.

La guerra in Ucraina ha poi evidenziato la mancanza di una politica energetica europea, i costi della dipendenza dal gas russo, e l’assenza di una difesa comune. La rivoluzione tecnologia, con l’avvento di internet, digitalizzazione, smartphone, cloud, e ora intelligenza artificiale, ha stravolto sistemi produttivi e comportamenti dei consumatori.

La mancata realizzazione del mercato unico, ancora troppo frammentato, non permette all’Europa di far fronte alla mutata struttura economica mondiale, ed è quindi la principale ragione della crescita insufficiente della produttività, e della carenza di grandi imprese capaci di reggere la concorrenza americana e cinese.

Quattro aree

Il Rapporto identifica la priorità di quattro aree: finanza e mercato dei capitali, energia e transizione ambientale, comunicazioni e difesa. Tra le priorità manca il settore tecnologico perché realisticamente il gap con Stati Uniti e Cina è ormai incolmabile ed è meglio allocare le risorse e l’iniziativa politica dove maggiori sono i vantaggi comparati. L’analisi e gli obiettivi del Rapporto sono condivisibili; molto meno le indicazioni su come raggiungerli perché troppo farraginose e poco focalizzate sui veri ostacoli all’integrazione.

C’è una miriade di società di comunicazioni in Europa, fino a quattro in ogni paese, mentre sono appena tre in tutti gli Stati Uniti. Ovvi i vantaggi in termini di economie di scala e capacità di finanziare gli investimenti che si otterrebbero con le fusioni transfrontaliere. La frammentazione del settore non è quindi dovuta alla mancanza di incentivi economici ma alla presenza degli stati nel capitale di molte società del settore, e a una politica Antitrust non più adeguata alla situazione attuale di mercato.

Nelle fusioni tra società dove gli stati sono azionisti, infatti, le logiche della politica dei governi interessati prevalgono sugli interessi economici e rendono le aggregazioni oltremodo difficili perché si trasformano in questioni di sovranità nazionale.

Le partecipazioni pubbliche sono il primo grande ostacolo alla realizzazione del mercato unico. Inoltre, l’imposizione da parte dell’Antitrust di una molteplicità di operatori in ogni paese era logica quando si voleva creare un mercato laddove prevaleva un monopolista pubblico; mentre oggi la priorità dovrebbero essere le aggregazioni necessarie per raggiungere la dimensione necessaria agli investimenti, visto che il mercato rilevante per la concorrenza non sono i più i singoli paesi, ma l’intera Unione europea.

Stato azionista, nazionalismi e politica Antitrust costituiscono un ostacolo anche alle aggregazioni nel settore della difesa; oltre alla mancanza di una politica comune europea. Airbus costituisce forse l’unico esempio di successo e ci sono diversi programmi comuni e joint ventures tra i vari paesi europei: ma siamo ben lungi dall’ondata di fusioni e acquisizioni che, negli anni Novanta, ha prodotto l’attuale concentrazione negli Stati Uniti delle imprese nella difesa.

Nel settore energetico la guerra in Ucraina ha mostrato non solo i rischi della mancata diversificazione delle fonti, ma anche la segmentazione delle reti a livello nazionale, impedendo l’integrazione, risultato della diversità nelle politiche energetiche: la Germania, che maggiormente dipendeva dai gasdotti con la Russia, ricorrere ore alle forniture dalla Norvegia, Mare del Nord, oltre a importare Lng, e punta sull’eolico; la Francia ha il nucleare; la Spagna il solare e i terminali sull’oceano che facilita l’importazione di Lng americano; l’Italia fa prevalentemente affidamento sul gas dal Nord Africa.

La transizione ambientale richiede un’enorme quantità di investimenti, oltre al costo del deprezzamento del capitale esistente, rendendola anti-economica per il mercato; né i cittadini sono disposti a sopportarne il costo. Diventa quindi indispensabile l’intervento pubblico a livello comunitario finanziato con la mutualizzazione del debito, come fu fatto per il Covid, vista la disparità delle capacità finanziarie dei paesi europei. Gli eurobond emessi per la pandemia rimangono però un caso isolato.

L’Europa è piena di nuove iniziative imprenditoriali che però non crescono fino a diventare grandi imprese perché, a differenza degli Usa, in Europa manca un grande mercato unico dei capitali capace di finanziarne la crescita.

Il sistema bancario

La regolamentazione bancaria è unica ma le fusioni bancarie transfrontaliere rimangono una chimera perché i governi non vogliono che i depositi dei propri cittadini vadano a finanziare investimenti rischiosi in altri paesi: che per i tedeschi sono i titoli di stato italiani delle nostre banche, mentre per noi sono i derivati delle banche tedesche e francesi.

Manca un Regolatore e una normativa unica del mercato dei capitali europeo, frammentato in tante Borse, mercati telematici e casse di compensazione; ma ogni progetto anche solo di coordinamento trova l’opposizione di tanti paesi che temono l’egemonia di Francia e Germania. E manca la volontà degli investitori istituzionali di investire in capitale di rischio: l’Europa, per esempio, conta per solo per il 10 per cento del venture capital mondiale, contro il 43 di Stati Uniti e Cina.

Il Rapporto evidenzia dunque come una maggiore integrazione economica europea possa produrre per i cittadini benefici che eccedono di gran lunga i costi politici della conseguente riduzione di sovranità nazionale. Ma visto i crescenti nazionalismi in Europa, credo che la strada verso il mercato unico europeo sia sempre più in salita.

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