La multa da 1,1 miliardi di euro ad Amazon da parte dell’Autorità antitrust italiana segna uno salto di livello nel tentativo degli Stati di riprendere il controllo del capitalismo delle piattaforme, ma non arriva all’improvviso.

Anzi, l’azienda fondata da Jeff Bezos dovrebbe preoccuparsi proprio perché indica che il clima è cambiato, anche in Europa, e che la Commissione europea non è più l’unica a sfidare Big Tech con le sue competenze comunitarie sull’Antitrust.

Anche i regolatori nazionali sono impegnati da alcuni anni nell’impresa di ribaltare rapporti di forza che sembravano squilibrati senza rimedio.

Sovranità digitale 

Stefano D'Amadio

La storia di questo sovranismo buono, che usa gli strumenti del mercato e della concorrenza per limitare il potere troppo accentrato dei monopoli digitali, viene ricostruita da un libro appena uscito, Sovranità.com – Potere pubblico e privato ai tempi del cyberspazio. Lo firmano Stefano Mannoni e Guido Stazi e dopo la sanzione Antitrust ad Amazon va letto non soltanto per gli spunti di dibattito che offre, ma perché permette di ricostruire quel movimento culturale tanto sotterraneo quanto potente che ha portato l’Antitrust di un paese periferico come l’Italia a mettere in discussione il modello di business stesso di Amazon.

Gli autori sono Stefano Mannoni, che è stato commissario dell’Agcom, l’autorità garante delle comunicazioni, tra 2005 e 2012 e Guido Stazi, che è a capo del Comitato valutazioni economiche dell’Antitrust: si tratta del pensatoio interno all’Autorità per la concorrenza che ha lavorato in questi anni per fornire la base intellettuale usata dal presidente Roberto Rustichelli per sfidare Amazon e contestare l’abuso di posizione dominante.

Nel mondo fisico un’azione come quella dell’Antitrust italiano avrebbe trovato molti oppositori: ad Amazon viene contestato un abuso di posizione dominante che all’apparenza non ha conseguenze negative.

Nessuno si lamenta davvero, più Amazon integra la sua filiera, più il servizio all’apparenza migliora: le imprese che vendono i loro prodotti su Amazon e gli affidano la logistica di magazzino, i servizi di cloud, le spedizioni, la pubblicità per far apparire per primi i loro prodotti prosperano più di quelle che non lo fanno.

Tutto bene, dunque? Assolutamente no, risponde l’Antitrust italiana che si è adeguata al principio espresso il 2 giugno 2020 dalla commissaria Ue alla Concorrenza: «Il mondo sta cambiando rapidamente ed è importante che le regole di concorrenza siano adeguate a questo cambiamento».

La linea europea 

European Commissioner for Europe fit for the Digital Age Margrethe Vestager takes a photo with her mobile phone during a media conference on the Digital Decade package: high performance computing and connectivity, at EU headquarters in Brussels, Friday, Sept. 18, 2020. (AP Photo/Olivier Matthys, Pool)

Nel mondo delle piattaforme, scrivono Mannoni e Stazi, i regolatori della concorrenza devono assicurarsi che il mercato venga corretto a monte, cioè che chi lo gestisce non possa trovarsi in posizione di favore (a prescindere che poi qualcuno si lamenti o no). Per questo la Commissione ha proposto il Digital Market Act che prevede, tra l’altro, che “le piattaforme identificate come gatekeeper (punti di accesso, ndr) non potranno combinare dati personali ricavati dai servizi della piattaforma principale con dati personali ricavati dai suoi servizi”.

Più servizi ci sono su una piattaforma, meno interesse avranno gli utenti a cercare alternative: nessuno usa Bing, il motore di ricerca di Microsoft, perché Google è molto più ricco ed efficiente, grazie anche al fatto di dominare il mercato della ricerca.

Ma Google può abusare di questa specie di “monopolio naturale” digitale per ridurre la concorrenza in altri mercati dove invece sarebbe possibile, per esempio nella vendita di pubblicità (i giornali, per esempio, sono in concorrenza con Google, ma perdono sempre perché grazie alla sua attività principale il motore di ricerca ha molte più informazioni su come personalizzare la pubblicità rivolta ai lettori).

Nel loro libro Mannoni e Stazi ricostruiscono come la nuova cultura dell’Antitrust – che vuole preservare la struttura del mercato e non solo prevenire truffe o aumenti dei prezzi – si è diffusa dagli Stati Uniti alle istituzioni dell’Unione europea e poi alle Autorità nazionali. Ha cominciato la Francia, con il suo duello ormai perenne con Google sul mercato della pubblicità e il rapporto con i media tradizionali.

Anche la Germania ha dato più poteri alla sua Bundeskartellamt, l’autorità indipendente, mentre la Gran Bretagna ha condotto la più approfondita analisi sulla monopolizzazione del mercato della pubblicità digitale con la sua Competition and Market Authority, guidata da un italiano, Andrea Coscelli.

La via italiana 

Google Germany GmbH in Muenchen, Arnulfpark headquarters, offices, facade, building, logo, company logo, company emblem. | usage worldwide Photo by: Frank Hoermann/SVEN SIMON/picture-alliance/dpa/AP Images

L’Italia si è mossa in modo discreto ma determinato sulla scia di queste nuove consapevolezze, un po’ estranee al dibattito politico ma ben presenti in quello dei tecnici (anche se l’egemonia dei giuristi nel mondo antitrust italiano genera qualche difficoltà di interazione con gli altri paesi dove sono gli economisti a guidare la discussione).

L’azione Antitrust contro Amazon che si è chiusa due giorni fa è stata aperta nel 2019 con l’ipotesi che Amazon abusasse della propria posizione dominante nell’e-commerce per imporre alle aziende presenti nel suo marketplace di diventare clienti anche di Fba, cioè Fulfillment by Amazon (i servizi di gestione di magazzino e spedizioni, noti in Italia come “Logistica di Amazon”).

Nell’ottobre 2020, l’Antitrust si è occupata del display advertising di Google, un settore  che, ricordano Mannoni e Stazi, nel 2019 valeva in Italia ben 1,5 miliardi di euro e «in questa attività di intermediazione Google detiene posizioni di mercato fortissime in tutti gli stadi della filiera tecnologica».

In particolare Google si occupa di far incontrare la domanda di pubblicità (aziende che vogliono fa apparire la propria campagna a un certo pubblico) con l’offerta di spazi pubblicitari sui siti web, ai quali corrisponde poi un certo pubblico di utenti.

Il ruolo di intermediario di Google, osservano Mannoni e Stazi, può determinare una sorta di conflitto di interessi, in quando Google esercita le funzioni di banditore ma intermedia anche compratori e venditori, definendo regole, prezzi e livello delle commissioni che trattiene”.

Il meccanismo di asta per assegnare gli spazi pubblicitari, insomma, può essere continuamente rivisto per massimizzare il beneficio dell’intermediario, invece che quello di compratore e venditore di spazi pubblicitari.

Il caso Juice Pass

Questa attenzione alle criticità intrinseche nel modello delle piattaforme digitali si estende a tutte le aree di business e per questo è così dirompente, perché mette in discussione la principale (e inconfessabile) fonte di profitto dei giganti digitali: il conflitto di interessi a spese delle parti coinvolte nella transazione.

Nel 2021 l’Antitrust italiana ha sanzionato con altri 100 milioni Google perché ha rifiutato di integrare nell’ambiente Android Auto la app Juice Pass sviluppata da Enel X per dare agli utenti informazioni sui punti di ricarica dei veicoli elettrici.

Lo scopo, secondo l’Antitrust, è non lasciare scelta agli utenti se non usare Google Maps. Una scelta che per il regolatore poteva addirittura “influenzare lo sviluppo della mobilità elettrica in una fase cruciale del suo avvio”.

L’autorità ha quindi costretto Google a fornire a Enel X e altri soggetti simili gli strumenti per programmare app che funzionino nell’ambiente Android. Nessun consumatore all’apparenza veniva danneggiato da usare Google Maps, anzi, forse tutti sono più contenti di usare un’unica app di mobilità (comportamento noto come single-homing) dove c’è tutto.

Questa comodità immediata però ha prezzi occulti enormi, come frenare sul nascere la mobilità elettrica perché impedisce alle aziende che più ci stanno investendo come Enel X di offrire direttamente servizi ai propri utenti, ottenerne i dati e costruire modelli di business che altrimenti resterebbero un’esclusiva di Google.

Questa assertiva consapevolezza si è affermata prima in Italia che negli Stati Uniti dove pure le nuove teorie antitrust si stanno sviluppando, grazie a economisti come Luigi Zingales, Fiona Scott-Morton e tanti altri.

Soltanto con Joe Biden e la nomina di Lina Khan alla Ftc, uno dei regolatori della concorrenza, l’approccio di tutela del mercato ha sostituito quello antiquato di tutela del consumatore. In Italia le radici della svolta affondano in una indagine sui big data sulla quale Antitrust e Agcom hanno lavorato tra 2017 e 2020 e che ora è la base di questo attacco allo strapotere di Big Tech.

Tutto questo nonostante la sostanziale indifferenza della politica. O forse è  proprio grazie al disinteresse dei partiti che un pezzo dello stato sta ricostruendo gli strumenti per affermare la sovranità nei confronti di soggetti che finora sembravano sfuggire a ogni tentativo di regolazione.

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