Il nome dell’economista Austan D. Goolsbee è tra i pochi ad essere conosciuto nelle maggiori business school americane come tra gli avventori dei pub di Chicago. Brillante professore della Chicago Booth School of Business, Goolsbee è stato il consigliere economico di Barack Obama, sia nella corsa da senatore sia in quella presidenziale. Ha presieduto il consiglio dei consiglieri economici del 44esimo presidente e il board “per la ripresa economica” dopo la Grande recessione del 2008. Di crisi, insomma, se ne intende.

Quando lo incontriamo nel suo studio, in maniche di camicia e sguardo mobile, dice subito che quest’ultima crisi nata dalla pandemia, trasformatasi in inflazione e alle prese con le variabili della guerra, «non ha niente a che fare con le precedenti». Negli Stati Uniti l’inflazione ha segnato a marzo il maggiore rialzo dal 1981. Il mercato del lavoro corre, ma i prezzi corrono di più. Secondo il Fondo monetario internazionale «resterà elevata più a lungo del previsto» e colpirà di più le economie emergenti. Ma la Fed, dice Goolsbee, in questa crisi «non ha dati su cui fare affidamento».

I rialzi del gas americano che ora tutti cercano, rischiano di aumentare le complicazioni per l’amministrazione Biden, ma l’impatto della guerra sull’economia degli Stati Uniti non è ovviamente comparabile con quello sull’Europa. Gli Usa, dice l’economista, sono «una grande economia chiusa».

Questo non significa che non si debba andare fino in fondo con le sanzioni, e introdurre l’embargo di petrolio e gas provewnienti dalla Russia. Goolsbee ricorda un’altra regola delle crisi: «La storia degli Stati Uniti insegna che in tempi di guerra i governi possono imporre sacrifici, specie se motivati geopoliticamente, che nelle crisi in tempo di pace non sarebbero tollerati».

FILE - In a Jan. 15, 2009 file photo Dr. Austan Goolsbee testifies on Capitol Hill in Washington before the Senate Banking Committee. President Barack Obama is expected to announce Friday Sept. 10, 2010, that Goolsbee will be the chairman of his Council of Economic Advisers. (AP Photo/Jose Luis Magana/file)

A proposito delle prossime mosse della Fed, il segretario all’economia Janet Yellen ha dichiarato che abbassare l’inflazione senza danneggiare il mercato del lavoro «si può fare, è già stato fatto in passato, ma richiede competenze e forse buona fortuna». Quanta competenza e quanta fortuna ci vuole per evitare danni?

Bisogna essere comprensivi con la Fed. È giusto ricordare che questa crisi non ha niente a che vedere con quelle precedenti, non è nata in settori industriali sensibili al rialzo dei tassi di interesse, quanto lo sono il settore dell’automotive, dell’immobiliare, dei beni durevoli. I modelli e i dati della Fed sono storicamente basati su quanto apparentemente questi settori sensibili reagiscono al rialzo dei tassi. Ma questa volta la crisi si è concentrata in quelli che storicamente sono considerati settori a prova di recessione, come i servizi sanitari, la ristorazione, il turismo, quelli che non hanno mai seguito un andamento ciclico.

Quindi?

Quindi ora la Fed sta cercando di bilanciare l’impatto di tassi di interesse più alti sul potere di acquisto di beni durevoli con quanto sarà il balzo dei servizi. Ma non ci sono dati su questo, perché non è mai successo prima e non pensiamo nemmeno che i tassi di interesse siano così influenti su questo fronte. Questo è il livello di difficoltà che ha di fronte la banca centrale.

Senza dati, quindi, ci affidiamo alla fortuna?

Dobbiamo sperare che siano fortunati sul fronte degli choc esterni sulle catene di fornitura che vengono dall’energia e dalle materie prime, per via della guerra, e dal Covid. Spero che lo saranno, ma se sono sfortunati non c’è nulla che la banca centrale possa fare per prevenire un’alta inflazione. Posso alzare i tassi, ma nel 1997 di fronte a uno choc sul fronte dell’offerta non ha funzionato per fermare l’inflazione, ha semplicemente creato stagflazione. Credo che sia questo che Yellen intendeva a proposito della fortuna.

Cosa rischiamo e quale è la differenza tra Stati Uniti, Europa ed economie emergenti?

Gli Stati Uniti sono per lo più una grande economia “chiusa”, la maggior parte dell’economia statunitense è diretta al mercato domestico. L’Europa è ovviamente più dipendente sul fronte dell’energia dalla Russia e anche i paesi emergenti sono più direttamente colpiti. Se gli Stati Uniti alzano i tassi, poi, possono comprimere la crescita dei mercati emergenti nella misura in cui dipendono dal dollaro statunitense. Ci sono due cose però che bisogna ricordare.

Quali?

La prima è che i tassi di interesse sono stati incredibilmente bassi e non c’è niente di sbagliato nel fatto che la Fed cerchi di tornare a una situazione simile alla normalità pre Covid. L’impatto sulle economie emergenti, quindi, sarà contenuto. Inoltre, nella maggioranza di questi paesi la parte del Pil dipendente da economie denominate in dollari è meno rilevante di prima.

Se le banche centrali non hanno dati per gestire questa situazione, serve un altro tipo di intervento per mitigare la crisi?

Nel 2021 si chiedeva meno stimolo fiscale, ma nel 2022 l’effetto dello stesso sta svanendo. Nel 2021 è stato di duemila miliardi, nel 2022 sarà meno duemila miliardi. Il crollo sarà automatico e massiccio: avremo un fiscal drag (freno fiscale) di magnitudine molto ampia. Lo stiamo già vedendo: la crescita del Pil americano l’anno scorso è probabilmente la seconda maggiore in mezzo secolo e già le previsioni per la prima metà di quest’anno sono in calo dell’un per cento. Questo rende ancora più difficile per la Fed non creare una recessione.

Austan Goolsbee, a long time economic advisor to President Obama, listen to President Barack Obama speak during a new conference in the East Room of the White House, Friday, Sept., 10, 2010. Today, Obama designated Goolsbee as the chair of the Council of Economic Advisers (CEA). (AP Photo/Pablo Martinez Monsivais)

Intanto con questi prezzi dell’energia, prevede un nuovo aumento della disuguaglianza?

La crisi Covid ha spinto al rialzo la disuguaglianza, la fine spero che la diminuirà. Negli Stati Uniti la distribuzione del reddito tra i consumatori di benzina, per esempio, non è così rilevante. Quello che possiamo aspettarci è un aumento della disuguaglianza tra aree urbane e aree rurali, questo sì.

In Europa la situazione è molto diversa sul fronte energetico e per l’impatto della guerra. L’ambasciatrice tedesca negli Stati Uniti qualche giorno fa ha sostenuto che difendere l’economia tedesca, evitando l’embargo di petrolio e gas russi, sia un’arma nei confronti di Putin.

Per affrontare la Russia abbiamo bisogno che la Germania faccia maggiori sacrifici economici tra le grandi economie. Capisco che questo a loro non piaccia, ma se la storia statunitense ci può fare da guida, allora dico che c’è molta più tolleranza da parte degli elettori per sacrifici economici geopoliticamente motivati rispetto a razionamenti semplicemente dovute al rialzo dei prezzi. Durante la guerra gli elettori accettano razionamenti che durante un periodo di pace farebbero cadere il governo. Di fronte all’escalation di atrocità da parte russa, le persone sarebbero maggiormente disposte ad accettare queste misure.

Questa guerra si può vincere sul fronte economico?

Se i russi si limitano all’obiettivo di conquistare una parte del territorio ucraino e poi si ritirano, il costo economico della guerra potrebbe essere limitato, se andiamo verso un conflitto protratto nel tempo di tipo siriano allora sarà un grosso problema. Le sanzioni nel lungo periodo risultano costose, ma le evidenze ci dicono che il potere sanzionato di solito continua ad andare avanti.

Alcuni sostengono che siamo all’inizio della deglobalizzazione. Uno slogan oppure c’è qualcosa di vero?

Nella crisi pandemica il sistema delle catene di approvvigionamento sviluppato negli ultimi 25 anni ha sostanzialmente fallito. Gli imprenditori che una volta discutevano di quale fosse la catena di fornitura più economica per ottenere quello di cui avevano bisogno, ora si chiedono quale sia la più sicura. C’è molta enfasi su quello che alcuni chiamano reshoring. in realtà significa sostanzialmente non dobbiamo comprare sui mercati aperti e dobbiamo produrre la merce di basso valore necessaria in casa riportando qui le catene di fornitura.

Durerà?

Possiamo dire che negli ultimi cinque anni, già prima del Covid con Trump e le guerre commerciali, il lungo trend della globalizzazione è stato rovesciato ma io credo che tra cinque anni torneremo indietro. Al momento è soprattutto un riflesso della crisi pandemica, e anche la guerra sta spingendo in questa direzione, ma è molto difficile che prosegua. Tra cinque anni qualcuno si sveglierà e si chiederà: perché abbiamo quel capannone in cui si producono quei calzini che possiamo comprare a un quarto del prezzo sui mercati aperti? E a quel punto riscopriremo il motivo delle catene di fornitura globali e allora torneremo sul trend multi decennale che abbiamo abbandonato.

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