In questi giorni si discute molto della scelta degli Stati Uniti di quadruplicare (dal 25 al 100 per cento) i dazi per le auto elettriche (Ev) di produzione cinese. Le opinioni sono divise tra chi la ritiene una mossa saggia e chi uno sfoggio pre-elettorale di Joe Biden, più orientato al voto di novembre (i sindacati dell’auto sono molto potenti negli stati indecisi) che alla bilancia commerciale Usa-Cina (la percentuale di Ev cinesi negli Usa è quasi zero).

La “linea dura” con la Cina è del resto stata uno dei cavalli vincenti di Donald Trump, e, sebbene Biden non sia stato morbido con Pechino, le sue azioni sono finora state più mirate che mediatiche.

Dunque solo di demagogia si tratta? La realtà non è così semplice. Anche se la penetrazione dell’Ec cinese in Usa è ridotta, non va dimenticato che un’architrave della politica industriale bideniana è proprio l’investimento nell’Ev. E che senso avrebbe spendere denaro pubblico senza prima assicurare al settore un “ambiente protetto” in cui fiorire?

Questioni elettorali

La mossa di Biden va perciò sì ricondotta a cause endogene, e anche a dinamiche elettorali, ma in modo meno rozzo di un semplice botta e risposta a Trump. Riguarda il bisogno, economico ma anche sociale, di re-industrializzare l’America, il chiodo fisso della cosiddetta “bidenomics”. L’impoverimento della classe media, frutto dell’iper-globalizzazione e del cosiddetto “China shock”, è da tempo ritenuto concausa della crisi della democrazia Usa, nonché dell’ascesa di Trump (il quale, in fondo, è stato il primo diagnosta del problema).

E dunque dal cuore malato della società americana tutto proviene e tutto discende, inclusa la scelta di alzare muri intorno a industrie su cui si è deciso di scommettere, anche a rischio che ciò comporti un aumento del costo dei prodotti, con effetti non da poco sulla transizione green. Poiché se durante gli anni del liberismo era il consumatore ad avere sempre ragione oggi, nell’America neo-protezionista, il soggetto da difendere è tornato a essere il lavoratore.

Lo scontro

C’è poi una questione di confronto-scontro con la Cina. Gli Usa accusano Xi di “giocare sporco”, iper-sovvenzionando la sue industrie, incluso l’Ev, per esportare prodotti sottoprezzo che mirano a “distruggere” mercati e aziende altrui.

Detto che, a parte regolamenti del Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) di difficile applicazione, non esistono parametri oggettivi per distinguere tra genuina competitività e concorrenza sleale, si può notare come l’eccesso di capacità industriale cinese sia anch’esso un sottoprodotto di dinamiche socio-economiche interne (in questo caso alla Cina) che vengono esternalizzate, non sotto forma di dazi ma di prezzi iper-competitivi.

La necessità di mantenere un certo regime di crescita, indispensabile alla stabilità politica del “regime”, fa infatti sì che la Cina debba continuare a produrre a ritmi serrati. Ritmi che determinano una sovracapacità tale per cui Pechino è, in alcuni settori, potenzialmente in grado di rifornire da sola l’intero pianeta.

Il problema è che la domanda cinese, stantia per diverse ragioni, non può assorbire che in minima parte la produzione interna che ha, dunque, necessità di trovare copioso sfogo al di fuori. Paradossalmente tutto ciò ha l’effetto di esasperare il “China panic” e di contribuire al clima culturale e ai problemi socio-economici che – insieme a considerazioni più razionali e strategiche – hanno spinto l’America verso il neo-protezionismo.

La posizione europea

Usa e Cina appaiono oggi intrecciate in un complesso loop (un tempo si parlava non a caso di Chimerica), in cui le caratteristiche e i problemi delle rispettive società si riflettono in politiche industriali e commerciali con impatti globali, multi-sistemici e con un potenziale non trascurabile di escalation geopolitica.

Nel mezzo si trova l’Europa che, aldilà dei ricorrenti richiami all’autonomia, pare incerta. A settembre Bruxelles ha lanciato un’investigazione per valutare la legittimità dei sussidi cinesi nell’Ev. Il verdetto è atteso a breve ma i bene informati prospettano l’introduzione di una tariffa al 30 per cento sugli import cinesi.

La percentuale non è casuale ma in ossequio a regole del Wto che sia Cina sia Stati Uniti ormai ignorano bellamente. Il fatto è che, in assenza di una corrispondente politica industriale a livello d’Unione, tale tariffa rischia di penalizzare solo i consumatori europei e rivelarsi insufficiente a proteggere aziende e lavoratori dalla crescita dei marchi cinesi dell’Ev in Europa. Una crescita che, venuto meno il mercato Usa, minaccia di divenire ancora più impetuosa nei prossimi anni (si prevede una penetrazione al 20 per cento entro il 2027).

I timori tedeschi

Dietro alle incertezze dell’Unione europea si celano i timori della Germania che, per bocca del premier Olaf Scholz, la scorsa settimana ha ricordato che i «costruttori europei (leggasi: tedeschi) hanno molto successo sul mercato cinese».

Corollario: non possono rischiare di venire tagliati fuori, in caso di ritorsioni di Pechino. Sull’altro versante ci sono i francesi, con quote meno interessanti in Cina, che vedono l’avanzata dei cinesi come una minaccia e stanno facendo pressioni su Brussels per giungere a una decisione il prima possibile.

Anche nel caso dell’Europa le tariffe non paiono dunque solo scelte di politica commerciale ma il riflesso di disfunzionalità proprie, e profonde, dell’Unione, in questo caso poste a un livello più istituzionale e rappresentativo che direttamente sociale o economico. Celiando, si potrebbe concludere che, in questi anni Venti, valga sempre più il motto: dimmi che tariffa vuoi e ti dirò chi sei.

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