«Un tassa ingiusta, irragionevole, con conseguenze negative sull’economia italiana». L’atteso contrattacco dei banchieri, spiazzati poco più di un un mese fa dalla nuova imposta sugli extraprofitti degli istituti di credito, è puntualmente arrivato ieri con l’audizione in Senato del direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini. Nella sua relazione, il portavoce della lobby bancaria ha criticato pesantemente il decreto-legge varato a sorpresa dal governo ai primi d’agosto, decreto che ora attende di essere approvato dal Parlamento. Le bordate dell’Abi vanno a colpire un esecutivo alla disperata ricerca di risorse per finanziare la prossima manovra. Gli introiti previsti dall’imposta sugli extraprofitti erano intorno ai 4 miliardi, ma con le inevitabili correzioni in corsa si arriverà, forse, a meno della metà.

Che fare dunque per far tornare i conti, quando anche la frenata della crescita pesa su un rapporto deficit Pil per il 2024che sembra destinato a sforare il 3,7 per cento indicato dal governo nel Def di primavera? Il riordino delle agevolazioni fiscali difficilmente potrà andare in porto entro l’anno.

Idem per la riduzione delle aliquote Irpef. E anche il nuovo approccio cosiddetto collaborativo tra l’Agenzia delle entrate e il contribuente, su cui insiste il viceministro dell’economia, Maurizio Leo, difficilmente potrà portare risultati sul fronte delle entrate nell’arco di pochi mesi.

La spending review dei ministeri dovrebbe fruttare, nella migliore delle ipotesi, non più di qualche centinaio di milioni in più rispetto al 2023. Nei giorni scorsi è anche tornata a circolare l’ipotesi di un prelievo extra su giochi e scommesse, calderone a cui in passato molto speso i governi di Roma hanno fatto ricorso per finanziare provvedimenti tappabuchi.

Sul fronte delle entrate, come molti esperti hanno più volte segnalato, ci sarebbero ampi margini d’intervento sulle tasse di successione, che in Italia sono straordinariamente basse rispetto al resto d’Europa. I partiti della maggioranza però sembrano ben decisi a non toccare questo tasto.

Con urgenza ben maggiore, almeno nel breve termine, l’esecutivo è chiamato a rispondere in qualche modo all’affondo dell’Abi, che per quanto atteso nella sostanza, si è rivelato più pesante del previsto nei toni. Gli argomenti esposti ieri sono per altro gli stessi che circolano da tempo sui mercati finanziari.

Secondo l’associazione di categoria delle banche, che lamenta di non essere stata consultata preventivamente dall’esecutivo, i presunti profitti extra delle banche vengono rilevati confrontandoli con quelli, molto più bassi del normale, incassati un periodo in cui tassi d’interesse erano intorno allo zero. Un periodo anomalo, quindi, che certo non costituisce un parametro adeguato a determinare gli utili da tassare.

L’Abi ricorda il precedente della Robin Hood Tax, l’imposta straordinaria sui profitti delle società energetiche, bocciata da una sentenza della Corte costituzionale nel 2015, sette anni dopo la sua introduzione fortemente voluta dall’allora ministro Giulio Tremonti.

In quel caso la Consulta segnalò l’inesistenza di un criterio con cui tassare il solo reddito supplementare connesso alla posizione privilegiata delle aziende colpite. La nuova imposta – sostiene l’Abi – oltre a essere incostituzionale perché retroattiva, avrebbe pesanti effetti negativi sui conti degli istituti, ma finirebbe anche per penalizzare l’intera economia nazionale, perché ridurrebbe la capacità delle banche di finanziare famiglie e imprese.

Pur senza entrare nel merito con dati e confronti, nel suo intervento Sabatini ha comunque citato due possibili correttivi. Il primo, scontato, riguarda la deducibilità della nuova imposta da Irap e Ires. In pratica le banche potrebbero così recuperare negli anni successivi parte di quanto versato.

Più complessa la questione dell’esclusione dei rendimenti dei titoli di stato dal perimetro dei proventi che verrebbero colpiti dal prelievo supplementare, che si applica sull’intero margine di interesse, e non solo sulla differenza tra tassi attivi (quelli sui prestiti alla clientela) e tassi passivi (pagati ai correntisti). Quest’ultima voce, infatti, ha fatto segnare un forte aumento negli ultimi 18 mesi, perché le banche non hanno adeguato il rendimento dei depositi all’incremento del costo del denaro deciso dalla Bce.

Non è chiaro come sarebbe possibile non considerare i titoli di stato nel computo degli extraprofitti. Di certo, secondo i banchieri, l’imposta metterebbe in difficoltà gli istituti proprio quando c’è bisogno del loro contributo per compensare lo stop ai nuovi acquisiti dei bond targati Italia da parte della Bce.

Sulla scia dell’Abi è intervenuta in Senato anche Federcasse, che chiede di escludere dal provvedimento il credito cooperativo, istituti di piccola dimensione che, fondano quasi per intero la loro redditività sul margine d’interesse e sarebbero quindi proporzionalmente più colpiti rispetto alle grandi banche, che hanno fonti di ricavo più diversificate.

Le bordate dei banchieri, che arrivano dopo un intenso lavorio di lobby che dura da settimane, finiscono per aumentare la pressione sul governo per un provvedimento nato in modo estemporaneo nel pieno dell’estate e aggiustato in corso d’opera un paio di volte prima di arrivare alla formulazione definitiva. Giorgia Meloni è tornata più volte sull’argomento per confermare la volontà dell’esecutivo di tassare quelli che la premier ha definito “profitti ingiusti”.

All’interno della stessa maggioranza, soprattutto da Forza Italia, si sono però nel frattempo moltiplicate le voci che vorrebbero correggere il decreto in Parlamento per diminuirne la portata e quindi il peso nei conti dele banche. Una destinata a scontrarsi con l’assoluta necessità da parte del governo di finanziare la prossima manovra, che diventa di giorno in giorno un rebus sempre più difficile da risolvere.

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