Non si può dire che non avesse avvisato per tempo. Ai primi di agosto, con la legge delega sul fisco fresca di approvazione parlamentare, Maurizio Leo se n’era uscito con un commento che lasciava poco spazio all’ottimismo. «Sui tributi e il taglio delle tasse si interverrà alla luce delle risorse disponibili che saranno evidenti già con la Nadef», mise le mani avanti il viceministro dell’Economia. Un messaggio chiaro. «Faremo il possibile, compatibilmente con le scarse risorse a disposizione». Le promesse della campagna elettorale, a cominciare dalla flat tax per tutti, autonomi e dipendenti, sono quindi destinate a restare un miraggio che si perde nei tempi lunghi della «prospettiva di legislatura». Come dire, se ne riparla, forse, entro il 2027. Leo, intervenendo ieri a Rimini al Meeting di Cl, è andato un’altra volta dritto al punto: «Per i provvedimenti su Iva, Ires e Irpef – ha detto il viceministro - saranno necessarie delle coperture, con la Nadef dovremo verificarle».

Coperture cercansi

Ecco, appunto, le coperture. Certezze al riguardo per il momento non ce ne sono, come lunedì scorso ha ribadito, sempre da Rimini, anche il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti.

E così, adesso, sembrano a forte rischio anche gli interventi che a prima vista potevano sembrare più abbordabili, quantomeno sul piano degli oneri per i conti pubblici. Il primo della lista è il riordino delle aliquote Irpef, che nei piani della maggioranza di governo dovrebbero passare dalle attuali quattro a tre. Per partiti come Lega e Fratelli d’Italia che hanno predicato per anni il verbo della tassa unica per tutti, il taglio degli scaglioni dell’imposta sulle persone fisiche sarebbe il minimo sindacale.

E infatti, la scorsa estate, Giorgia Meloni lo aveva inserito tra i punti fondanti del suo programma elettorale. In sostanza, predicava l’attuale premier, il sistema va riformato nel senso di mantenere tre sole aliquote. E si ipotizzava di accorpare le prime due (quella al 23 per cento e quella al 28 per cento) in una sola al 23 per cento per i redditi annui lordi fino a 28 mila euro e mantenendo inalterate le altre due: quella al 35 per cento fino a 50 mila euro di reddito annuo e l’ultima al 43 per cento per i redditi superiori. Questo intervento avrebbe un costo annuo che è stato stimato intorno ai 4 miliardi.

Una somma che andrebbe a premiare i contribuenti che guadagnano tra 15 e 28 mila euro, che scenderebbero dal secondo al primo scaglione, con conseguente riduzione d’imposta di due punti, dal 25 al 23 per cento.

Facile a dirsi, ma per passare dalle semplici ipotesi ai fatti il capitolo Irpef dovrà trovare posto nella lista delle misure intoccabili, una lista che con i chiari di luna della finanza pubblica (oneri per interessi sul debito in aumento, Pil in frenata, ritorno dei vincoli europei sul deficit) va riducendosi di giorno in giorno. Va ricordato che già nel 2021, con la manovra per il 2022, il governo di Mario Draghi aveva già varato un primo riordino degli scaglioni Irpef, ridotti da cinque a quattro. Un intervento che costò all’incirca 5 miliardi.

Detrazioni intoccabili

Adesso la maggioranza di centrodestra punta a fare un altro passo verso un’ulteriore riduzione delle aliquote.

Per racimolare almeno una parte dei 4 miliardi (ma forse di più) necessari per completare la riforma si era da principio pensato a metter mano alla lunghissima lista delle cosiddette tax expenditures, più di 600 agevolazioni fiscali, tra deduzioni, detrazioni e crediti d’imposta, che pesano ogni anno per 125 miliardi sul bilancio dello Stato in termini di minor gettito.

Nessun governo ha mai neppure immaginato di intervenire su alcune di queste misure, come le detrazioni delle spese sanitarie e quelle degli interessi sui mutui per la prima casa. Le altre, in gran parte valgono poche decine di milioni, oppure rappresentano favori alle più diverse lobby.

Difficile, quindi, per non dire impossibile, che la politica si prenda il rischio di tagliarle proprio alla vigilia di un anno elettorale come il 2024, in cui si voterà per il Parlamento europeo. E non sembra neppure immaginabile che nel nome della riduzione dell’Irpef, l’esecutivo sacrifichi in tutto o in parte altri capitoli di spesa ad alto impatto sociale come quelli che riguardano le pensioni o la sanità.

Nodo fiscal drag

Come se non bastasse, alla voce Irpef il governo dovrà affrontare il più presto possibile anche un altro nodo che, se non venisse sciolto, potrebbe avere un costo molto elevato in termini di voti. Il problema si può riassumere in due parole: fiscal drag. A mettere in moto questo meccanismo è l’inflazione, che oltre a ridurre il potere d’acquisto dei salari, innesca un incremento dell’imposizione fiscale. Quest’ultima finisce per mangiarsi buona parte degli eventuali aumenti di reddito che derivano dai rinnovi contrattuali oppure anche da altri benefici, come per esempio il taglio del cuneo fiscale confermato e ampliato dal governo.

Succede infatti che all’aumento nominale delle entrate dei lavoratori corrisponde un passaggio all’aliquota d’imposta superiore e quindi un maggior prelievo in termini di imposte. Per questo da tempo i sindacati chiedono l’indicizzazione all’inflazione delle detrazioni da lavoro e da pensione.

Altri ipotizzano di metter mano alle aliquote Irpef, adeguando anche queste alla crescita del costo della vita. Intervenendo sulle detrazioni, oppure sugli scaglioni d’imposta, lo Stato restituirebbe ai lavoratori una parte dei maggiori introiti per le casse pubbliche che derivano proprio dall’aumento del costo della vita. Queste misure però non sono certo a costo zero. E al momento il governo non sa neppure dove trovare la decina di miliardi necessari per confermare il taglio del cuneo fiscale. Così anche lo scudo contro il fiscal drag rischia di diventare un altro capitolo nel libro dei sogni della prossima manovra di bilancio.

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