Chiudere le scuole non è una scelta da prendere a cuor leggero. Ogni volta che lo facciamo aumenta la probabilità che peggiori l’apprendimento, aumentino le disuguaglianze e vengano meno luoghi essenziali per la lotta contro la povertà.

Chiudere tutto è, in sostanza, un’estrema ratio che dobbiamo adottare solo quando non c’è più nulla da fare. Il fatto è che oggi, nel 2021, abbiamo le risorse e le conoscenze per evitarlo. I dati ci dicono che il problema più evidente sono i trasporti pubblici. E i dati ci dicono anche che è un problema più rilevante per gli studenti tra i 14 e i 18 anni, e nelle città o piccolissime, dove serve la corriera per andare a scuola, o molto grandi, dove vengono utilizzati l’autobus o la metropolitana. A rigor di logica, quindi servirebbero regole che distinguano le scuole per grado e ubicazione, non tanto regole omogenee per ogni regione. Queste sono in realtà un modo facile per non affrontare il problema.

La decisione di chiudere le scuole parte dal presupposto che le scuole siano luoghi più rischiosi rispetto ad altri, in quanto lì avviene un maggior numero di contagi. In realtà, ancora non sappiamo se sia vero o meno, e per questo diversi paesi hanno adottato approcci diversi riguardo alla chiusura delle scuole. Gli studi si dividono.

Luca Bruno / AP

Contagiano le scuole o i bus?

Una prima ricerca, effettuata sugli interventi di 200 paesi durante la pandemia, ha evidenziato come la chiusura delle scuole e delle università sia stata una delle misure più efficaci nel ridurre il tasso di trasmissibilità della pandemia. Un altro studio, questa volta basato sull’esperienza di 131 paesi, ha anch’esso evidenziato che la chiusura delle scuole ha diminuito la velocità dei contagi.

Dall’altra parte però, c’è una lunga e documentata letteratura accademica secondo la quale non è possibile stabilire un nesso causale certo fra chiusura delle scuole e diminuzione del contagio. Uno studio basato su dati tedeschi mostra che né le chiusure estive né le chiusure autunnali hanno avuto alcun effetto di contenimento significativo sulla diffusione del Covid-19. Lo stesso Istituto superiore di sanità italiano ha recentemente pubblicato una nota sul tema e ha evidenziato come «esistano evidenze contrastanti circa l’impatto della chiusura/riapertura della scuola sulla diffusione dell’infezione». È quindi messa in dubbio l’idea che la scuola e gli istituti scolastici siano più pericolosi rispetto ad altri.

Il punto sul quale ci sono molti meno dubbi è che gli assembramenti in luoghi chiusi aumentino la probabilità dei contagi. E non vi è luogo più chiuso e più affollato del trasporto pubblico. Secondo un’analisi pubblicata da lavoce.info a firma Bracco, Pertile e Turati, le province dove i lavoratori usano più intensamente il trasporto pubblico hanno un maggior livello di contagi. Non solo, i tre ricercatori calcolano che, a scuole aperte, un aumento dell’1 per cento di persone in età scolare che utilizzano il trasporto pubblico è associato con un aumento del 3 per cento dei casi ogni 100 mila abitanti. Come dire che per ogni studente che va a scuola in bus ci sono tre persone in città che hanno molta più probabilità di essere contagiate. Proprio per questo, regioni e comuni, a ragione, hanno convogliato i loro sforzi sull’aumentare le corse dei mezzi pubblici e scaglionare le entrate. Molti sforzi son stati fatti da singole scuole e comuni per gestire al meglio il rientro degli alunni dopo la pausa estiva, cercando di assicurare la sicurezza a tutti gli studenti.

I trasporti non sono uguali

L’incertezza sul ruolo della scuola nella pandemia ha portato a un rimpallo costante di responsabilità e competenza tra regioni e stato e, all’interno del governo, tra ministero dell’Istruzione e ministero dei Trasporti, generando una babele comunicativa che ha confuso famiglie, ragazze e ragazzi. Basti pensare che ogni giorno le regole per la didattica cambiano con il governo centrale che emana decisioni in merito e poi le singole regioni che modificano ulteriormente le regole. Ed è così che si crea confusione in merito a quali scuole resteranno con la didattica in presenza e quali invece con la didattica a distanza. Il fatto è che questa confusione può essere evitata. Come si vede dai grafici pubblicati su queste pagine, i dati ci possono dare una mano: il problema non sono le differenze tra le varie regioni, ma tra città e città, e solo per alcune classi di studenti.

In primo luogo, bisogna cercare di capire chi usa i mezzi pubblici per andare a scuola. I dati esistono e dimostrano come i trasporti pubblici siano usati principalmente da studenti tra i 14 e i 19 anni. Il primo grafico mostra che circa il 50 per cento di questa fascia va a scuola usando trasporti pubblici. Il grafico mostra anche come il problema sia nettamente inferiore per altre fasce d’età. Fino alla fine delle medie, più o meno, sono principalmente nonni o genitori che accompagnano gli studenti a scuola in auto o a piedi, spostamenti che a rigor di logica, implicano una bassa probabilità di contagio.

In secondo luogo, bisogna ricordarsi che l’Italia è un paese di piccoli e medi comuni (più del 50 per cento ha meno di 5.000 abitanti). Non in tutte le città si va a scuola allo stesso modo: a diverse dimensioni dei centri abitati corrispondono diversi tassi di utilizzo dei mezzi pubblici. I dati mostrano infatti come i trasporti pubblici siano utilizzati principalmente o in piccolissime città o in grandi metropoli. Sotto i 2.000 abitanti, più del 50 per cento degli studenti utilizza mezzi pubblici per andare a scuola. Il dato è intuitivo: nei piccolissimi comuni, spesso si deve prendere la corriera per andare a scuola nel capoluogo più vicino. La percentuale diminuisce man mano che il comune diventa più grande raggiungendo meno del 30 per cento nei comuni fra i 10 e i 50mila abitanti. Infine, osservando la tipologia di comune, notiamo come nei centri delle aree metropolitane il numero di persone che usa i mezzi pubblici per andare a scuola risale quasi al 40 per cento.

In conclusione, incrociando questi due dati, possiamo ragionevolmente sostenere che il rischio più alto di contagio avviene per ragazzi e ragazze delle scuole superiori e principalmente in città di piccolissime o grandi dimensioni, dove il trasporto pubblico è molto più frequente. Esiste però un nutrito numero di scuole che si trovano in città dove si usano poco i mezzi pubblici: le città tra i 10.000 e i 50.000 abitanti, ovvero il 12 per cento dei comuni o il 30 per cento di tutte le scuole in Italia. A usare criteri un po’ più laschi, si potrebbero considerare anche i centri abitati fra i 50.000 e i 100.000 abitanti. In questo modo sarebbe possibile evitare le chiusure di ulteriori 10 per cento di scuole sparse in tutto il territorio nazionale. I semplici calcoli appena elencati sono un esempio di come si possa affrontare il problema della chiusura o meno degli istituti scolastici in maniera differente da un semplice approccio ragionieristico.

Guardiamo i dati

L’Italia è stata il paese che durante la prima ondata della pandemia ha chiuso per più giorni tutte le scuole (che son rimaste chiuse per più di 100 giorni). Ma i dati ci dicono che decisioni come quella di chiudere tutto e trattare i quasi 11 milioni di studentesse e studenti allo stesso modo sono sostanzialmente sbagliate. E da evitare. Decidere di chiudere tutto poteva andare forse bene negli anni ‘20, quando per far fronte all’epidemia di “spagnola” non si avevano molti dati e ricerche ma qualcosa bisognava pure fare per evitare che la pandemia sfuggisse di mano. Ma, nel 2021, abbiamo sia le capacità sia i dati e le conoscenze per evitare di fare di tutta l’erba un fascio. Chiudere le scuole ha enormi conseguenze. Primo, sull’apprendimento. L’istituto americano Nwea ha dimostrato che gli studenti tra gli otto e i 13 anni hanno ottenuto in media 5-10 punti percentuali in meno nei test di matematica rispetto ai loro coetanei pre-pandemia. È ragionevole supporre che in Italia la situazione non sia troppo diversa. La chiusura delle scuole aumenta le disuguaglianze. Una ricerca di economisti tedeschi dell’università di Monaco mostra che, se in media tutti gli studenti hanno ridotto di circa la metà il tempo dedicato all’apprendimento in pandemia, la riduzione è stata più marcata per quegli studenti che già avevano difficoltà nel pre-pandemia.

Luca Bruno/AP

Infine, la chiusura delle scuole toglie risorse a chi ne ha meno perché priva di uno dei principali presìdi contro la povertà minorile. La chiusura delle scuole ha infatti significato la cancellazione dei pasti scolastici, spesso l’unica fonte di nutrimento per i bambini delle famiglie più povere. Alcuni paesi se ne sono resi conto: il Regno Unito, per esempio, ha istituito un voucher di 15 sterline per ogni settimana di chiusura delle scuole per ogni bambino; la Spagna ha creato una dote di 25 milioni di euro per provvedere al supporto alimentare di bambini svantaggiati. Negli Stati Uniti è stato previsto un sito apposito dal dipartimento di Food and Nutrition Service che evidenzia tutti gli strumenti per aiutare i bambini in età scolare più bisognosi.

Non sappiamo quando potremo riaprire tutte le scuole, soprattutto con i contagi che ancora aumentano e una terza ondata forse alle porte. Ieri abbiamo registrato circa 20.000 casi in più rispetto al giorno precedente e 483 morti. Ma se incominciamo a guardare i dati, forse possiamo limitare i danni. Soprattutto per la generazione che è il futuro di questo paese.

 

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