L’ultimo giorno del 2021 abbiamo scritto per tutto quest’anno Domani si occuperà di disuguaglianza, perché è un tema così rilevante da meritare dodici mesi di indagine, visto che poche cose destabilizzano una società organizzata in modo democratico come lo squilibrio di redditi, benessere e opportunità. Per cominciare questo viaggio bisogna affrontare una questione delicata: la disuguaglianza sta aumentando? Oppure è soltanto la nostra sensibilità al tema che è cambiata?

Alcune risposte si trovano nell’ultima versione di un lavoro di Lucas Chancel e Thomas Piketty, un working paper pubblicato a dicembre dal World Inequality Lab che continua il filone di ricerca avviato più di un decennio fa dall’ormai celebre autore de Il Capitale nel XXI secolo. Se consideriamo la più nota delle misure della disuguaglianza, cioè l’indice di Gini, vediamo che a livello globale la disuguaglianza sta addirittura diminuendo. Possibile che tutto questo dibattito sia un equivoco?

Problema risolto?

L’indice di Gini è un indicatore che vale 0 se tutti gli individui del gruppo di riferimento hanno lo stesso reddito e 1 se invece un solo individuo ottiene tutto il reddito prodotto. L’Indice di Gini valeva 0,6 nel 1820, poi la disuguaglianza è aumentata costantemente per quasi un secolo e a inizio Novecento (1910) valeva 0,72. Nei decenni successivi oscilla, prima scende poi sale, dopo 90 anni, cioè nel 2000 è di nuovo a 0,72 mentre dopo due decenni del secolo, cioè nel 2020, è sceso a 0,67.

La disuguaglianza sembrerebbe quindi un problema in via di superamento: il mondo pare meno diseguale oggi che nel 1910. Eppure, noi abbiamo percezione del contrario, tanto che dagli Stati Uniti all’Italia alla Francia avanzano partiti e leader populisti che si fanno campioni delle vittime della disuguaglianza, il vasto popolo degli oppressi dalla globalizzazione.

Anche se consideriamo la quota di reddito del 10 per cento più ricco della popolazione mondiale, del 40 per cento più ricco (la classe media) e del 50 per cento più povero, cioè tutti gli altri, il mondo sembra piuttosto stabile attraverso i decenni. Il 10 per cento più ricco poteva contare sul 50 per cento del reddito nel 1820, percentuale che arriva al 61 per cento nel 2000 e poi scende un po’, fino al 55 per cento del 2020. Il 50 per cento più povero della popolazione mondiale se l’è sempre passata male, aveva il 14 per cento del reddito nel 1820, soltanto il 7 nel 1910, addirittura il 5 nel 1980, poi recupera un po’ e nel 2020 di nuovo il 7. Eppure, gli arrabbiati hanno la percezione che invece le cose stiano peggiorando, che la disuguaglianza stia esplodendo, mentre gli economisti sembrano raccontare una disuguaglianza strutturale, vecchia quanto il mondo o almeno quanto il nostro mondo contemporaneo, cioè un paio di secoli. Chi ha ragione?

Hanno ragione sia gli arrabbiati che gli economisti.

La spiegazione è che l’indice di Gini e altri indicatori misurano la distribuzione del reddito a livello globale, come se tutti gli individui vivessero in un unico, grande paese. Ma nel mondo reale non è così. C’è una disuguaglianza tra paesi – per esempio la differenza tra il Pil degli Stati Uniti e quello del Messico – e una all’interno dei paesi, che registra la distanza tra il reddito di un afroamericano di Chicago e un ingegnere di San Francisco.

Se guardiamo questi due diversi tipi di disuguaglianza, la storia cambia parecchio. Se consideriamo la disuguaglianza tra paesi, considerata come il rapporto tra i redditi medi del 10 per cento più ricco e del 50 per cento più povero, è cresciuta stabilmente dal 1820 al 1910, 1980 e poi ha iniziato a ridursi. La disuguaglianza all’interno dei singoli paesi, calcolata allo stesso modo, è aumentata gradualmente tra il 1820 e il 1910, poi è scesa drasticamente tra il 1910 e il 1980 quando la tendenza si è invertita e ha iniziato a salire per tornare là dov’era partita, cioè ai livelli di inizio Ottocento (la disuguaglianza all’interno dei paesi si calcola sottraendo alla disuguaglianza totale la disuguaglianza tra paesi, cioè quella che si ottiene ipotizzando che ciascun paese abbia solo cittadini con reddito uguale al reddito medio).

Uno dei principali risultati del lavoro di Chancel e Piketty è proprio capire come è cambiata la disuguaglianza: nel 1820, la disuguaglianza tra paesi rappresentava l’11 per cento della disuguaglianza totale, nel 1980 il 57 per cento, nel 2020 soltanto il 32. Il resto è la disuguaglianza all’interno dei paesi.

Ritorno al passato

Come si vede, il dibattito sulla disuguaglianza è molto più complesso di quanto può sembrare se ci si concentra soltanto sui super ricchi, che pure sono una parte significativa del problema (la quota di reddito globale dell’1 per cento più ricco è salita dal 20 per cento del 1820 al 26 per cento del 1910, per poi scendere al 16 per cento del 1970 e risalire al 20 per cento del 2020).

L’analisi di Chancel e Piketty lascia intravedere una possibile spiegazione di quello che sta succedendo: tra 1820 e 1910 i paesi occidentali hanno costruito il loro benessere grazie al colonialismo, garantendo ai propri cittadini livelli di reddito che sarebbero stati impensabili senza poter sfruttare risorse (fisiche, ambientali, umane) sottratte ad altri.

Poi nel Novecento il colonialismo è finito mentre, in contemporanea, negli Stati Uniti e soprattutto in Europa politiche socialdemocratiche redistribuivano reddito dai più ricchi alla classe media, così che anche la disuguaglianza all’interno dei paesi si riducesse.

Gli anni Ottanta segnano la svolta, le opportunità della globalizzazione spingono i governi occidentali a ridurre tutele e redistribuzione, altri paesi – Cina in particolare – sviluppano una classe media e riducono la propria distanza (in aggregato) dalle economie industrializzate. Il prezzo è però che all’interno dei singoli paesi occidentali la disuguaglianza aumenta.

Se guardiamo la classe media globale, cioè l’insieme delle persone che assomma il 40 per cento del reddito, la quota europea e americana si espande fino a metà del Novecento, poi inizia a ridursi, mentre l’Asia che aveva oltre il 5 per cento della classe media globale nel 1820 scende quasi a zero negli anni Quaranta (colpa della Cina di Mao) e poi ritrova il suo spazio tra 2000 e 2020.

Perdere lo status di classe media è un trauma sociale, individuale e collettivo: nei paesi autoritari, vedi la Cina di un secolo fa, il malcontento viene represso nel sangue. Nelle nostre democrazie si manifesta alle urne con il sostegno a partiti con proposte radicali e, spesso, reazionarie sotto la patina del sovranismo.

Le tensioni sotterranee

Facile perdersi tra tutti questi numeri e percentuali, ma la sintesi a cui ci porta il lavoro di Chancel e Piketty è semplice e coerente con le paure degli arrabbiati, più che con le rassicurazioni che arrivano dall’1 per cento più ricco (o anche del 10 per cento più ricco, cui appartengono quasi certamente tutti i lettori di questo articolo, anche se non ne sono consapevoli). Il mondo di oggi assomiglia a quello di inizio Ottocento, con una significativa differenza: l’occidente non può più pensare di costruire la sua prosperità futura sul colonialismo vecchio stile, tra saccheggi e schiavitù, e neppure su quello di inizio millennio sottoforma di investimenti diretti esteri in paesi con costo del lavoro e tutele molto bassi. L’urgenza della crisi ambientale spinge addirittura le economie più ricche a farsi carico di costi aggiuntivi che finora hanno scaricato sul resto del mondo, sottraendo ulteriori risorse alla torta le cui fette sono diventate sempre più diseguali.

Tutto questo non è un problema per chi sta in cima, ma lo è per gli altri: tra 1980 e 2020, anni di crescita robusta un po’ ovunque tranne che in Italia, l’1 per cento più ricco ha ottenuto il 23 per cento dei benefici della crescita complessiva dei redditi reali pro-capite, mentre il 50 per cento più povero soltanto il 9 per cento.

Tenere insieme società che si sono costruite e sono maturate con altre premesse – cioè sulla base di una stabile disuguaglianza tra paesi e di una declinante disuguaglianza all’interno – non sarà affatto facile. Per questo è bene discuterne in modo approfondito, qui su Domani.

Questo articolo si basa sul working paper Global Income Inequality, 1820-2020: The Persistence and Mutation of Extreme Inequality di Lucas Chancel e Thomas Piketty. Economisti o altri scienziati sociali interessati a contribuire a questo dibattito possono scrivere a stefano.feltri@editorialedomani.it

 

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