Il sociologo polacco Zygmunt Bauman, in L’arte della vita, sosteneva che la nostra esistenza è come un’opera d’arte. Per viverla ogni persona tende a porsi delle sfide (a volte difficili), degli obiettivi (a volte oltre la propria portata), delle tensioni verso ciò che cerca di realizzare.

Il sociologo interpreta queste dinamiche come percorsi individuali verso la felicità, come road map del senso dell’esistenza di ogni individuo. La condizione di infelicità, in base a questo assunto, è il frutto della difficoltà, dell’impossibilità o della limitatezza nel raggiungere quei desideri e quegli obiettivi.

Chi è felice

Ma quanti sono gli italiani soddisfatti della propria esistenza? Le persone che si definiscono pienamente soddisfatte sono l’11 per cento, cui si somma un altro 56 per cento che, tra momenti altalenanti, mostra una certa soddisfazione esistenziale. La quota degli insoddisfatti cronici si aggira intorno al 33 per cento.

Questo dato medio, però, nasconde profonde divergenze. I soddisfatti salgono all’83 per cento nel ceto medio (+16 per cento rispetto la media), mentre gli insoddisfatti voltano al 63 per cento nei ceti popolari (+30 rispetto la media).

Una società polarizzata non solo lungo le linee sociali, ma anche sulle direttrici geografiche. I più soddisfatti li troviamo a nord est (73 per cento), mentre una maggior quota di insoddisfatti li incontriamo nelle isole (45 per cento). Al fondo della soddisfazione esistenziale c’è l’avvertire come utili le cose che si stanno facendo.

Da questo punto focale le persone che avvertono come molto utile quanto stanno facendo è solo il 19 per cento, cui si somma un altro 52 per cento di soggetti che avverte, come moderatamente utile, le cose che sta facendo. Quanti, invece, giudicano poco o per niente utile la dimensione di vita attuale assommano al 28 per cento. Una quota che sale al 45 per cento tra i ceti popolari e al 39 per cento nelle isole.

A rendere complessa l’esistenza delle persone è, soprattutto, la distanza tra desideri e realizzazioni. Il divario tra quello cui una persona aspira e quello che riesce a ottenere è ampio per ben il 70 per cento degli italiani, con un 24 per cento che segnala tale dicotomia come molto alta.

Le persone che hanno, invece, raggiunto le proprie mete o che si sentono appagati e non avvertono un grande divario tra sogni e realizzazioni ammontano al 29 per cento. Come sempre il principale divario lo registriamo lungo le faglie di classe. La distanza tra attese e realizzazioni sale all’83 per cento nei ceti popolari, mentre scende a poco più del 50 per cento nella middle class.

Queste dinamiche incidono, ovviamente, sullo sguardo che le persone hanno sulla vita e sul suo senso. Il 47 per cento degli italiani non sa in che direzione sta andando la propria vita. Un dato che sale al 64 per cento tra i ceti popolari e scende al 35 per cento nella classe media.

Il 42 per cento delle persone afferma che la maggior parte dei giorni non prova alcun senso di realizzazione per quello che sta facendo (58 per cento tra ceti popolari e studenti). Il 55 per cento dell’opinione pubblica si sente sempre incerto e in bilico e non riesce a prendere decisioni con facilità. In questo caso a essere più indecisi sono gli appartenenti al ceto medio (64 per cento).

Nonostante difficoltà e contraddizioni, purtuttavia, il 63 per cento degli italiani ha un giudizio positivo su sé stesso (con punte del 71 per cento nel ceto medio e del 51 tra i ceti popolari).

Lo sguardo sul futuro

Nell’eterno scontro tra ottimisti e pessimisti sul proprio futuro, gli italiani si spaccano per l’ennesima volta in due: 58 per cento di ottimisti e 42 per cento di pessimisti. Gli ottimisti si annidano nel ceto medio (72 per cento), tra i giovani (64), tra gli uomini (62) e tra i quadri (75). I pessimisti, invece, fanno proseliti nei ceti popolari (69 per cento), a nord ovest (47), tra le casalinghe (54) e nella generazione X, i quaranta-cinquantenni (48).

Le dinamiche contemporanee, di cui i dati sono una testimonianza, mostrano una delle aporie congenite e insanabili della società del consumo, dell’apparire e dell’unicità: la tendenziale crescita delle forme di crisi dell’individualità e l’ampliarsi profondo del solco esistenziale che separa le classi sociali.

I ceti meno abbienti e i soggetti più fragili sono sempre più condannati a un’esistenza triste e inappagata, all’accrescersi di un io instabile, incompleto, indefinito e inautentico. Una dinamica che incrementa, in alcune fasce della popolazione, una forma di permanente non-soddisfazione e di senso di esclusione.

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