Blm, Black lives matter è da ieri realtà. Il movimento, nato nove anni fa per protestare contro l’assoluzione di una guardia privata ispanica che aveva ucciso un diciassettenne nero («era buio, pensavo avesse una pistola») ha avuto la sua prima vittoria. Dodici giurati di Minneapolis sono stati unanimi nell’affermare che, sì, le vite dei neri contano, che i neri sono esseri umani come gli altri e che la polizia non può pensare di essere sempre impunita. Hanno detto che George Floyd era un essere umano, pacifico e inoffensivo e che la sua vita non è stata tenuta in nessun conto, anzi, pur davanti alle invocazioni di pietà della vittima, pur davanti ai pianti e alla disperazione delle persone che hanno assistito alla scena, l’agente Derek Chauvin gli ha premuto un ginocchio sul collo per 9 minuti e 25 secondi “per spremergli via” il respiro, il battito cardiaco, la vita.

Per lui la vita di un nero non contava, o contava molto poco. Chauvin, che aveva rifiutato di testimoniare, che non ha mai espresso un rimorso, un pentimento, una scusa alla famiglia, se n’è andato via con le mani ammanettate dietro la schiena. Manette larghe, che lasciavano passare il sangue e permettevano alle dita di muoversi. E infatti Chauvin le muoveva. Solo poche ore prima l’accusa aveva fatto vedere l’ammanettamento di George Floyd; molto stretto. Floyd aveva urlato che gli facevano male, di allentarle. E invece gliele strinsero di più. E, siccome i nuovi telefonini hanno migliorato moltissimo l’audio, si sentono gli scatti che stringono le manette.

Uno scatto. Due scatti. I poliziotti bianchi hanno esperienza della soglia del dolore degli afroamericani, sanno che è diversa da quella dei bianchi; sanno i loro trucchi, per sfilarsi le manette; sanno che non bisogna cedere alla compassione, sanno quanto tempo ci mette un nero a morire se privato di ossigeno, perché glielo insegnano nei corsi di polizia, sanno che sembrano morenti, ma sono capaci di scatti felini. Anche questo gli insegnano. La difesa di Chauvin (che non ha avuto il sostegno dei suoi colleghi, né dei suoi superiori) ha sostenuto che Floyd non morì per asfissia, ma perché il suo cuore, grosso e sfibrato dal consumo di droghe, aveva ceduto. Le ultime parole dell’accusa, rivolte ai giurati sono state: «No, signori. Floyd non è morto perché aveva un cuore grande, ma perché Chauvin aveva un cuore piccolo».

Il resto è ormai entrato nella storia: a new day in America. La giuria che ci mette pochissimo tempo per decidere; il presidente degli Stati Uniti che, appena la giuria è stata “sequestrata” e non può più essere influenzata, prende la parola dallo Studio Ovale della Casa Bianca e dichiara: «Le prove contro Chauvin sono schiaccianti. Si è trattato di un delitto in piena luce, tutti hanno visto.

Prego perché la sentenza sia giusta». Minneapolis transennata e presidiata addirittura dalla Guardia nazionale, cupe voci che prevedono una protesta violentissima scatenata da Black lives matter in caso di assoluzione di Chauvin… e poi con moltitudini che si sono date convegno nelle piazze, nelle chiese, nei centri delle città per vegliare e per pregare, in gruppi o in coppie attaccati a un telefonino che piangono di gioia ai tre “guilty” pronunciati, in fila, dal giudice Cahill; il presidente Biden che telefona a casa Floyd e viene messo in diretta perché tutto il mondo possa sentire; e possa sentire la bambina figlia di George che gli dice: «Daddy changed the world».

Un bel giorno, una buona America.

Impossibile con Trump

Tutto questo, semplicemente, non sarebbe successo se Donald fosse ancora stato presidente. Trump non disse mai una parola di condanna dell’omicidio, anzi si scagliò contro Black lives matter, minacciando di usare contro di loro «armi potenti e cani feroci», come si faceva nel Mississippi degli anni Sessanta e assicurando i poliziotti che li avrebbe sempre protetti. (Prima della condanna di Chauvin, dicono le statistiche, solo l’1 per cento delle forze di polizia accusate di omicidio – e stiamo parlando di migliaia di casi, l’America è davvero un paese violento – aveva mai ricevuto una condanna).

Ma non è stato soltanto il cambiamento del clima politico ad aver maturato la sentenza, che ha segnato «un passo da gigante sulla strada verso la giustizia» (sempre Biden); una ragazza di diciassette anni sarà ricordata dalla storia, come la nuova Rosa Park, la giovane nera di Montgomery, Alabama che nel 1955 si sedette sul bus in un posto riservato ai bianchi, venne arrestata e diede origine al movimento dei diritti civili. Si chiama Darnella Frazier, afroamericana, ha ora diciotto anni e il suo nome è risuonato in tutto il processo; è la ragazzina che ha tenuto il polso fermo per dieci minuti in cui il suo cellulare, per nostra fortuna dotato di uno stabilizzatore di immagini, di una buona batteria e di una ottima fotocamera.

Lo ha tenuto fermo nonostante le lacrime, perché in quell’uomo che moriva vedeva suo padre, suo fratello, suo zio e non poteva fare nulla per salvarlo, perché gli altri poliziotti la tenevano a distanza. Ha filmato tutto, è tornata a casa e ha messo tutto su Facebook. Se non ci fosse stata lei, non ci sarebbe stato niente: né Chauvin, né Blm, né la vittoria di Biden alle elezioni, né il processo terminato ieri, né il passo da gigante dell’America verso la giustizia.

Esagerato? Per nulla. Come è stato ricordato dalla rete televisiva Cnn, quel pomeriggio del 25 maggio 2020 in cui George Floyd fu ucciso, la polizia di Minneapolis aveva già preparato una “spiegazione”, addirittura affidata ad una dichiarazione ufficiale. «Uomo ingaggia una colluttazione con un poliziotto durante un’operazione di polizia, subisce un attacco cardiaco e muore in ospedale. Nell’operazione, avvenuta intorno alle 8 pm, non è stata utilizzata alcuna arma. Nessun agente è rimasto ferito». Non era indicato il nome, né l’etnia della persona «dell’apparente età di 40 anni». La prima perizia sul certificato di morte era conseguente: morte per crisi cardiorespiratoria. Era, come ora si sa, tutto falso, ma per la polizia di Minneapolis la vita di Floyd contava davvero ben poco. Intanto, il video di Darnella diventava “virale”, e nella notte la polizia fu costretta a correre ai ripari. Nel giro di quindici giorni, il volto di Floyd schiacciato sul marciapiede diventò famigliare per milioni di persone, che in lui si sono riconosciute.

Il processo Chauvin è stato davvero un evento storico; e davvero le immagini, forse per la prima volta, hanno determinato il suo esito. C’era una verità della polizia, ed era falsa. C’era la verità di Darnella, ed era vera, ma se non fosse stata supportata dalle immagini, in un’aula di tribunale sarebbe stata maciullata. Chauvin si era reso conto di essere filmato? Non si saprà mai. Sicuramente non si era reso conto che tutto il mondo lo stava guardando. E perché Darnella non smetteva il tasto “rec”? Perché anche lei, forse neanche saperlo, faceva parte di quell’organizzazione enorme che si chiama Black lives matter, che, senza saperlo, segue il consiglio evangelico di portare testimonianza della ingiustizia del mondo.

Nuove leggi, nuove mentalità

Nelle cronache del dopo sentenza – struggenti per la felicità dei protagonisti, ammirevoli per la loro fede nella giustizia – ho sentito più volte, sia da parte dei vecchi che da parte dei giovani, il nome di Emmett Till. Chi era? Emmett Till era un ragazzino nero di quindici anni, la sua famiglia dopo la guerra era fuggita dal Mississippi dei linciaggi e come un milione di afroamericani si era stabilita a Chicago; nel vecchio sud rimaneva uno zio, che viveva come lo zio Tom, in una capanna.

Così, nell’estate del 1955, Mamie diede il permesso a Emmett di andare a passare le vacanze dallo zio, sul fiume. Emmett era un ragazzo di città, ragionava sul metro di Chicago e così, quando entrò con i suoi amici in una stamberga per comprare dei ghiaccioli, si permise di toccare la mano della donna bianca che gli dava il resto e, forse, di farle l’occhiolino. La donna bianca lo disse al marito e al cognato, che catturarono Emmett, lo torturarono e lo uccisero; poi presero il cadavere, gli legarono al collo un vecchio ventilatore e lo buttarono in un canale.

Emmett però riaffiorò, casualmente, completamente sfigurato, irriconoscibile, se non per un anello appartenuto a suo padre, morto in guerra. Molto a malincuore, lo sceriffo ordinò di restituire il cadavere alla madre Mamie, a Chicago, in una cassa piena di paglia. Mamie portò la bara in una ditta di onoranze funebri per neri e volle che la tenessero aperta. Il popolo di Chicago venne invitato a vedere quello che avevano fatto ad Emmett Till e a prendere fotografie. Dicono le cronache di allora che davanti a quel bambino sia passato mezzo milione di persone. Rosa Parks fece la sua azione simbolica spinta dalle fotografie del cadavere di Emmett Till; forse anche Darnella quella storia l’aveva sentita raccontare in casa.

Chissà se le cose cambieranno per davvero; difficile, ma possibile. Nuove leggi, nuova mentalità. Come ha detto il fratello di George, Philonise Floyd, a chi gli ha chiesto come ci si sente dopo aver trovato giustizia: «Beh, è un po’ come poter fare finalmente un bel respiro».

 

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