Era facile prevedere che la recente affermazione del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, secondo cui in Italia «i poveri mangiano meglio dei ricchi» avrebbe sollevato molte reazioni e con argomenti non facili da dismettere, come quelli di cui ha recentemente dato conto Vanessa Ricciardi su questo giornale.

Il ministro ha parlato di un paese con una «educazione alimentare interclassista» diversa da quella classista degli Stati Uniti, riaffermata anche dal presidente del Senato, Ignazio La Russa, e ha indicato la strada che permetterebbe ai poveri di mangiare meglio dei ricchi: «cercando dal produttore l’acquisto a basso prezzo, comprano qualità».

La deprivazione economica, dunque, sembrerebbe essere la condizione per una migliore alimentazione. E se, come si legge pressoché ovunque, l’alimentazione sana allunga la vita e preserva da molte malattie, i poveri sarebbero anche sulla strada che conduce alla longevità.

Esaminare il nesso tra povertà e longevità è, dunque, un modo – forse un po’ indiretto, ma di certo non fuorviante – di misurarsi con la tesi del ministro Lollobrigida. Del resto mangiare meglio ma morire prima non sarebbe precisamente un grande affare.

Se «l’educazione alimentare interclassista» permettesse ai poveri, in Italia, di vivere più a lungo di chi ha redditi superiori saremmo di fronte a una positiva e piuttosto straordinaria anomalia: dai principali studi epidemiologici internazionali (si vedano i libri di Michael Marmot), le condizioni di salute e la mortalità sono fortemente correlate con le condizioni economiche, configurando una sorta di circolo vizioso in cui le diseguaglianze economiche aggravano quelle di salute.

Lo studio di Torino

Ma vi sono prove convincenti, in particolare gli studi del gruppo di ricerca dell’Università di Torino coordinato da Giuseppe Costa, secondo cui l’Italia non è un’anomalia. In generale i poveri vivono meno e si ammalano di più. Una recente pubblicazione dell’Istat aggiunge informazioni importanti sul “gradiente sociale della salute”, ovvero sull’esistenza di una correlazione positiva fra condizioni socioeconomiche e stato di salute (e aspettativa di vita).

L’Istat presenta i dati sui tassi di mortalità (standardizzati per caratteristiche individuali) per 24 cause di morte (fra cui rientrano le malattie infettive, le varie tipologie di cancro, il diabete, i problemi cardiovascolari) dei residenti in Italia distinti per titolo di studio.

Da essi risulta che nella popolazione italiana, per qualsiasi fascia d’età, i tassi di mortalità si riducono in misura ampia all’aumentare del titolo di studio e, aspetto da sottolineare, il vantaggio relativo di chi è più istruito emerge rispetto a qualsiasi causa di morte. Inoltre, i differenziali di mortalità per livello di istruzione sono più ampi fra gli uomini che fra le donne e risultano molto elevati nella fascia d’età 30-69.

Ad esempio, in questa fascia d’età, per il complesso delle cause di morte, il tasso di mortalità di un uomo laureato è più basso del 41,5% di quello di chi ha solo la licenza media e del 23,3% inferiore a quello di chi ha conseguito un diploma superiore. Fra le donne, i tassi di mortalità standardizzati per una laureata rispetto a una persona con licenza media e diploma si riducono del 28,3% e del 14,9%.

Le disuguaglianze

Ma come si legano queste evidenze con la connessione fra diseguaglianze economiche e di salute? I dati non stanno, ovviamente, a significare che è l’istruzione in sé la causa delle condizioni di salute e, addirittura, dei rischi di morte. Occorre guardare ai fattori correlati con l’istruzione che possono avere un effetto più diretto sulla salute.

Una lista incompleta include sicuramente il reddito, l’occupazione e gli stili di vita. L’istruzione è infatti un buon predittore delle condizioni economico-sociali individuali dato che, in media, chi ha un’istruzione più elevata gode di maggior reddito, svolge mansioni meno gravose e ha più frequentemente l’opportunità di seguire stili di vita più salutari, dei quali è anche più consapevole.

Si può qui aggiungere, sul filo del confronto con gli Stati Uniti, che, come hanno dimostrato Case e Deaton con i loro studi sulla “morte per disperazione” (Death of Despair), in quel paese sono molto aumentati i casi, appunto, di morte per disperazione tra chi ha un basso titolo di studio: dai suicidi, alla droga, all’alcool. Il tragico legame è con le condizioni socio-economiche dei poco istruiti.

La salute

Cumulandosi tra loro, i vari fattori indicati in precedenza influenzano la salute attraverso molteplici meccanismi; ad esempio, l’accesso a cure migliori e più tempestive per chi ha un reddito più elevato ed è quindi in condizione di beneficiare di assicurazioni sanitarie o di prestazioni private, evitando lunghe liste di attesa; peraltro, l’informazione sulle cure migliori è un bene prezioso e scarso cui spesso si accede tramite passaparola fra i più abbienti e, d’altro canto, la qualità del sistema sanitario (e la facilità di accedervi) tende a essere migliore nelle aree del paese più ricche. Inoltre, chi svolge lavori migliori e meglio pagati ha un rischio minore di contrarre malattie professionali e può essere anche meno soggetto a stress.

Non sappiamo con precisione quanta della differenza nei tassi di mortalità dipenda dalle abitudini alimentari, ma i dati ci fanno fortemente sospettare che i poveri non mangino meglio dei ricchi e, inoltre, che anche se si alimentano in modo sano, seguendo una corretta (e economicamente accessibile) dieta mediterranea non riescono a colmare gli svantaggi economici e sociali di cui soffrono e che li condannano alla disuguaglianza forse più odiosa, quella nelle condizioni di salute e nell’esistenza in vita.

I dati che abbiamo esaminato invitano, quindi, a non sentirsi troppo tranquilli rispetto ai poveri. Anche se mangiassero bene o meglio dei ricchi (cosa che davvero non risulta dimostrata come fenomeno generale) vivono meno e peggio di chi ha un reddito più elevato. Forse il ministro Lollobrigida può concordare che questo è un problema serissimo da prendere in considerazione cercando, magari, di realizzare l’interclassismo anche in ambiti diversi dall’educazione alimentare.

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