L’Istat ha confermato che l’inflazione italiana è in calo: a giugno, i prezzi sono aumentati in media del 6,4 per cento rispetto allo stesso mese dello scorso anno, ben al di sotto del +7,6 per cento che si era registrato a maggio.

Il governo ha subito provato a prendersi il merito di questa discesa: lunedì, Fratelli d’Italia ha pubblicato un’infografica in cui si sostiene che il calo dei prezzi indichi che l’esecutivo Meloni è sulla strada giusta e che l’Italia è tornata a crescere. Peccato che nessuna politica di Meloni abbia contribuito a ridurre l’inflazione, come sottolineato in un articolo di Pagella Politica, né l’Italia è tornata a crescere, anzi, nel secondo trimestre di quest’anno la crescita è stata zero, come sottolineato nel bollettino economico di Banca d’Italia.

Al di là di meriti e demeriti del governo, è interessante osservare che l’Italia sta sì migliorando, ma i livelli di inflazione restano più elevati rispetto a molti paesi a noi vicini. Secondo Eurostat (che usa un indice leggermente diverso rispetto al Nic di Istat), il tasso di inflazione in Italia era del 6,7 per cento a giugno, contro il 5,3 per cento della Francia, il 2,7 per cento della Grecia e addirittura l’1,6 per cento della Spagna. A far peggio di noi c’è solo la Germania, che però ha registrato una crescita dei salari nominali del 5 per cento nell’ultimo anno, contro il +1,6 per cento dell’Italia.

Il primo motivo di questa differenza potrebbe essere la maggiore esposizione dell’Italia al gas russo nelle prime fasi della crisi inflattiva: abbiamo sofferto di più all’inizio e il processo di recupero richiede più tempo adesso.

Un altro fattore particolarmente importante potrebbe essere la minore concorrenza tra le imprese nel nostro paese: la crisi inflattiva non dipendeva necessariamente dall’avidità delle aziende, ma dall’aumento del costo delle materie prime.

Ora che questo problema non esiste più, in uno scenario concorrenziale le imprese dovrebbero competere l’un l’altra per offrire i prezzi più bassi, ma, se il livello di concorrenza è basso, allora questo effetto non si registra.

L’accordo sul grano

Proprio adesso che la situazione sembrava migliorare, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che non prorogherà l’accordo sul grano che permetteva l’esportazione sicura dei prodotti agricoli ucraini verso il resto del mondo. Nel 2020, l’Ucraina era l’ottava produttrice al mondo di grano e prima della guerra forniva all’Italia il 61 per cento del fabbisogno di olio di girasole e il 13 per cento di quello di granoturco.

Gli accordi del Mar Nero, stipulati tra Russia e Ucraina con la Turchia come garante, scadevano il 17 luglio e la Russia ha annunciato di non avere intenzione di rinnovarli. A detta del Cremlino, le limitazioni sulle esportazioni di grano e fertilizzanti russi non sono state rimosse e dunque non ha senso proseguire l’accordo.

Questa scelta potrebbe avere conseguenze gravissime sulla disponibilità di beni alimentari nel Mondo. Moltissimi paesi in via di sviluppo, infatti, contano sulle importazioni dall’Ucraina e la sospensione del commercio potrebbe scatenare una crisi alimentare globale.

Anche i paesi avanzati, pur avendo la possibilità di diversificare le proprie importazioni, si troveranno di fronte a una restrizione dell’offerta globale di prodotti agricoli, che causerà un ulteriore aumento dei prezzi, proprio ora che l’inflazione stava frenando.

Disuguaglianze

I prezzi dell’energia sono in calo, così come quelli dei beni alimentari di base. Oggi l’inflazione non è elevata (solo) per l’aumento del costo delle materie prime, ma soprattutto per shock interni all’economia. Le materie prime più care hanno spinto le imprese ad aumentare i prezzi per mantenere invariati i margini.

I lavoratori, vedendo che il loro potere d’acquisto calava, hanno richiesto aumenti di stipendio, a volte concessi dalle imprese che, per mantenere i propri margini costanti, hanno poi deciso di aumentare i prezzi. Fermare questa spirale non è semplice: basterebbe fermarsi tutti e cristallizzare la situazione com’è adesso, con prezzi, salari e profitti invariati. Ma l’economia non è un campo da calcio: non basta fischiare per fermare il gioco.

Una mezza notizia positiva c’è: l’inflazione non è trainata dai beni che sono proporzionalmente consumati di più dalle famiglie meno abbienti, ossia energia e alimenti. I prezzi crescono soprattutto perché aumenta il costo dei servizi e dei beni non di base, che sono consumati di più da chi sta meglio.

Attenzione: non significa che i poveri spendono di più in pasta o carne dei ricchi, ma che utilizzano una quota maggiore del proprio reddito per quei beni di prima necessità. Questo è il motivo per cui Istat costruisce panieri di beni differenziati per classe di reddito.

L’inflazione indica l’aumento del prezzo di un insieme di beni consumati dall’italiano medio, ma possiamo calcolare l’aumento dei costi anche per l’individuo medio che vive nel 20 per cento meno abbiente (che destinerà una quota maggiore di reddito a uova e bollette) e di quello che vive nel 20 per cento più abbiente (che spenderà una percentuale maggiore di reddito in biglietti del cinema, massaggi o vacanze).

Già oggi la differenza è alta: secondo Istat, il 20 per cento con il reddito più basso ha registrato un aumento medio dei prezzi del 9,4 per cento nel secondo trimestre di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2022, contro un +7,1 per cento per il 20 per cento più abbiente.

Nel 2022, le persone più in difficoltà avevano addirittura sperimentato un’inflazione di più del 50 per cento superiore rispetto al 20 per cento più benestante (12,1 contro 7,2 per cento). Se gli accordi del Mar Nero non verranno rinnovati, è probabile che i prezzi dei beni alimentari torneranno a crescere, con conseguenze negative per tutti, ma devastanti per chi si trova più in difficoltà dal punto di vista economico.

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