Davvero i poveri mangiano meglio dei ricchi? La risposta, non solo a livello nazionale, viene dai dati rilevati dall’Osservatorio internazionale Waste Watcher su cibo e sostenibilità, promosso dalla Campagna Spreco Zero in collaborazione con l’università di Bologna e Ipsos.

Nell’edizione 2023, presentata a Roma, in occasione della 4 Giornata internazionale che l’Onu dedica alla consapevolezza sulle perdite e gli sprechi alimentari (29 settembre), emerge esattamente il contrario. I ceti meno abbienti non solo mangiano peggio ma, paradossalmente, sprecano di più e soffrono delle patologie legate alla malnutrizione per eccesso di alimenti di basso valore nutrizionale.

I dati

EPA

Andiamo con ordine guardando il contesto e le rilevazioni puntuali. L'indagine è stata condotta su un campione rappresentativo di 7.500 famiglie in 8 Paesi: Italia, Francia, Spagna, Germania, Olanda, Germania, Stati Uniti, Regno Unito e, per la prima volta, l’Azerbaijan. Globalmente abbiamo rilevato una massiccia riduzione dello spreco domestico, con punte assai rilevanti in paesi dove a livello domestico si spreca di più come ad esempio gli Usa, ancora 859 grammi pro capite alla settimana ma - 35per cento rispetto al 2022.

Anche l’Italia riduce lo spreco domestico che scende sotto la soglia dei 500 g: -21per cento pari a 469 gr. Effetto dello scatto inflattivo, che porta le persone a porre più attenzione a quello che si compra e a ridurre il più possibile quello che si getta via.

Come negli anni passati, tuttavia, ciò che conta oltre al peso è anche la qualità degli alimenti: nel nostro paese si getta via prevalentemente frutta fresca (27 g), insalate (19,5 g), pane fresco (18,8 g) e verdure (17,1 g). Si tratta di prodotti alimentari che hanno subito un incremento dei prezzi al dettaglio e che si deteriorano più velocemente ma sono anche, teniamolo sempre presente, alimenti che si collocano alla base di una dieta sana e sostenibile come è il caso della Dieta mediterranea.

Paura per l’inflazione

È l’effetto combinato di un quadro economico, sociale e ambientale drammatico in tutti i paesi – pandemia, guerra, cambiamento climatico – con un’inflazione alimentare (e relativi tagli alla spesa) che ha superato le due cifre in molte realtà e un indice di fiducia sul futuro molto basso, come rilevato nel Report da Ipsos. Il quadro economico e sociale globale non mostra dinamiche particolarmente positive. Le uniche due nazioni in cui la maggioranza dell’opinione pubblica mostra un pizzico di ottimismo solo Usa e Olanda.

Nel primo paese l’indice di fiducia dei consumatori è al 54,4 per cento mentre in Olanda è di 0,8 superiore al 50 per cento. Negli altri paesi, Italia compresa, il termometro volge al pessimismo. In tutte le realtà monitorate il giudizio sullo stato di salute dell’economia del proprio paese vede una maggioranza di cittadini assegnare una valutazione negativa.

In Olanda siamo al 49 per cento di cittadini che danno un giudizio sostanzialmente buono, mentre in Italia si scende al 33 per cento, in Gb al 28 per cento e in Francia al 24per cento. A far da padrone nei giudizi negativi delle persone è l’inflazione.

È il nemico numero uno a livello mondiale e preoccupa il 43 per cento degli americani e degli inglesi, il 40 per cento dei francesi, il 38 per cento dei tedeschi e il 31 per cento di italiani e spagnoli. Solo gli olandesi hanno un tasso di tensione sul tema più basso che si colloca al 25 per cento.

Oltretutto, come si evince dal Report, il deterioramento economico ovvero l’impoverimento delle fasce della popolazione più deboli, dove l’inflazione alimentare colpisce più duro, porta ad un abbassamento della quantità e della qualità dei prodotti alimentari acquistati e un parallelo peggioramento della dieta alimentare, con effetti negativi sulla salute e i costi sanitari.

Un doppio binario

ANSA

Guardando all’Italia, ad esempio il quadro è significativo. Mentre il ceto medio, che può permettersi di comprare prodotti migliori, riesce a ridurre lo spreco (-10 per cento), i ceti popolari che, invece, sono tendenzialmente costretti a fare i conti con i prezzi sempre in salita e a comprare prodotti che costano meno o che hanno una minore qualità, si trovano maggiormente a fare i conti con lo spreco per il deterioramento veloce dei prodotti acquistati.

Così nei ceti popolari lo spreco alimentare fa registrare un +12 per cento, con picchi del 17 per cento sulla verdura e del 13 per cento sulla frutta fresca. Il dato più eclatante è quello legato al 24 per cento di spreco per frutta e verdura non fresche, che porta alla luce il tipo di dieta di queste classi popolari, con effetti negativi sulla salute e sul modello esistenziale.

Lo sforzo dei governi deve dunque concentrarsi su un doppio binario – economico ed educativo, strettamente correlati – per riportare il sistema in equilibrio con l'obiettivo, certo di ridurre lo spreco alimentare (che significa risparmiare), ma anche di adottare diete sane e sostenibili che significa riconoscere il valore del cibo.

Soprattutto nelle fasce più vulnerabili ed esposte della popolazione: questa è la vera sfida per il futuro, se è vero che siamo chiamati a riconoscere il diritto ad un’alimentazione adeguata, sufficiente, sana, sostenibile e culturalmente accettabile (ius cibi) come indicato nell’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani, in diversi documenti dell’Onu sul diritto al cibo, e nell’art. 32 della Costituzione. Ora è il momento di riconoscere che i poveri non mangiano meglio dei ricchi e di passare dalle dichiarazioni ai fatti.

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