Sebbene operi in Tunisia sin dal 1960, nel corso degli ultimi anni, Eni ha più volte manifestato l’intenzione di vendere le sue attività petrolifere.

Un fatto che non sorprende, vista la tendenza da parte delle aziende del petrolio e del gas a dismettere i loro giacimenti su terraferma, concentrando gli investimenti su quelli in mare aperto, lontani da comunità e proteste, ma anche più difficili da monitorare per la società civile.

I problemi di Eni in Tunisia nascono subito dopo la rivoluzione che, nel gennaio del 2011, porta alla caduta del dittatore Ben Ali. Il rovesciamento del regime dà il via a una nuova stagione politica, alimentata dalle richieste di maggiore democrazia e diritti.

Le conseguenze del cambiamento

Le istanze di cambiamento si ripercuotono fortemente sul settore petrolifero, preso a simbolo della gestione opaca e nepotistica del regime uscente. Nel 2012, un’indagine della Corte dei conti tunisina sul settore energetico fa emergere una lunga serie di presunte irregolarità relative alle concessioni e la pressoché totale mancanza di controlli da parte delle autorità preposte.

I tecnici della Corte dei conti rilevano, per esempio, che i gas associati del giacimento di Adam, gestito da Eni, verrebbero bruciati invece di essere reiniettati nel giacimento o utilizzati per produrre elettricità.

La corte osserva, inoltre, i lunghissimi ritardi da parte della compagnia statale Etap nello svolgere i controlli su diverse concessioni, tra cui anche quelle detenute da Eni. Circostanza che pare confermata dal fatto che tali controlli partiranno soltanto sette anni più tardi, come riporta una relazione della stessa Etap.

La pubblicazione dell’audit fa da trampolino alle richieste di riforma del settore petrolifero avanzate dalla società civile.

La campagna di pressione ottiene i primi risultati significativi nel 2014, con l’approvazione dell’articolo 13 della Costituzione, che introduce un meccanismo di monitoraggio parlamentare sui contratti petroliferi.

Viene istituita una commissione parlamentare ad hoc, la commissione Energia, con il mandato di supervisionare l’assegnazione delle licenze, alla cui guida viene nominato il deputato dell’Alleanza democratica Chafik Zerguine. Zerguine si dimostra da subito determinato a svolgere il suo ruolo.

Durante il suo primo (e ultimo) anno di mandato, la commissione blocca il rinnovo di cinque concessioni, tra cui anche quella di Borj El Kadhra, una delle più rilevanti del paese, di cui Eni è l’operatore. L’attivismo di Zerguine scatena però l’ira dell’esecutivo di Tunisi, che accusa la commissione di voler ostacolare le multinazionali. D’altra parte, diverse figure apicali del governo provengono proprio dall’industria del petrolio.

L’allora ministro dell’Energia, Khaled Kaddour, era stato a lungo un alto dirigente di Eni in Tunisia, in cui arriva a ricoprire persino il ruolo di vice presidente. L’ex primo ministro, Mehdi Jomaa lavorava precedentemente per la compagnia francese, Total. Il ministro dell’Industria proveniva invece dalla maggiore società per servizi petroliferi al mondo, l’americana Schlumberger.Zerguine viene costretto a lasciare il suo incarico qualche mese più tardi, dopo che il ministro degli Interni lo mette sotto controllo per via di presunte minacce di morte a suo carico, poi rivelatesi non vere. Tra le vicende più controverse che vedono coinvolta Eni c’è quella relativa al permesso esplorativo di Borj El-Kadhra, situato nella regione di Tataouine, nel sud tunisino. Sulla concessione pendeva una richiesta di proroga dei termini per via del mancato completamento dei lavori, dovuto secondo Eni alle agitazioni sociali degli anni della rivoluzione. Prima di approvare il rinnovo, però, la commissione parlamentare vuole vederci chiaro sul motivo dei ritardi e si apre così una fase di stallo che si protrae per diversi anni. Nel 2017, il governo tenta di porre fine all’impasse presentando un decreto legge che modifica i termini della concessione, estendendone la durata.

Misura eccezionale

Per ammissione dello stesso ministero dell’Energia, si tratta di una misura eccezionale, dato che i termini ordinari per una nuova estensione del permesso risultavano scaduti.Secondo i relatori del governo, la mancata approvazione del decreto comporterebbe il rischio che Eni invochi la forza maggiore o, ancora peggio, ricorra a un arbitrato internazionale. Gli esponenti dell’esecutivo evidenziano inoltre la rilevanza di Eni per la Tunisia, passando in esame tutte le scoperte e i pozzi trivellati nel paese dalla multinazionale italiana.

Nel gennaio del 2018, avviene il primo colpo di scena. Il governo torna a riferire in parlamento, stavolta per comunicare l’intenzione da parte di Eni di cedere le proprie licenze petrolifere. La discussione sul permesso di Borj El Kadhra viene dunque rimandata a data da destinarsi.

Secondo le ricostruzioni mediatiche di quel periodo, Eni stava negoziando la vendita dei propri asset con la compagnia britannica Trident Energy, sulla quale però il governo di Tunisi nutriva seri dubbi. Secondo la rivista Africa Intelligence, a mettersi di traverso sarebbe stato il già citato ministro dell’Energia, Kaddour, temendo di essere accusato di voler favorire Eni per via del suo passato da dirigente della società italiana.

La situazione cambia nuovamente qualche mese più tardi, quando il governo annuncia al parlamento che Eni sarebbe disposta a continuare a investire nel paese, a patto venga sbloccato il dossier sulla concessione. Il segretario di stato per l’Energia mette nuovamente in guardia dal rischio di un arbitrato internazionale, qualora il permesso non venisse rinnovato.

La discussione in commissione va avanti per circa un anno, facendosi a tratti molto accesa: «Perché mai il parlamento dovrebbe porre rimedio a questa contesa, quando è la multinazionale a non aver rispettato gli accordi da programma?», chiede polemicamente la deputata di opposizione, Sana Mersni.

Le fanno eco diversi colleghi, anche appartenenti a schieramenti politici diversi, tra cui l’allora presidente del Blocco semocratico, Salem Labiadh, il quale si rammarica del fatto che «le multinazionali del petrolio sono al di sopra dello stato tunisino».

Dopo un lungo stallo, il parlamento approva la modifica dei termini della concessione di Eni nell’estate del 2019, ma la faccenda non finisce qui. A giugno di quell’anno, la deputata di Ennahda, Sana Mersni accusa pubblicamente Eni di aver licenziato suo marito per via delle posizioni da lei espresse in parlamento riguardo la licenza.

Eni nega seccamente tramite una nota, nella quale afferma che il marito della Mersni, Chakib Khaloufi, non fosse un dipendente diretto Eni, bensì un consulente esterno il cui contratto era giunto regolarmente al termine. Qualche giorno dopo, Khaloufi appare in un’intervista televisiva durante la quale muove numerose accuse nei confronti del Cane a sei zampe.

Il caso ha voluto che proprio in quei giorni, la Mersni fosse in visita ufficiale a Roma presso il parlamento, durante la quale sostiene di aver sollevato il caso della concessione anche con i deputati italiani.

Un’altra proroga

L’ultimo tassello di questa intricata vicenda risale al marzo dello scorso anno, quando il governo concede l’ennesima proroga in favore di Eni, che nel 2020 aveva nuovamente invocato la forza maggiore a cause delle proteste.Attualmente il permesso è ancora nelle mani del cane a sei zampe, che dovrebbe completare i lavori entro il luglio del 2023. Se non fosse, però, che la compagnia italiana sembrerebbe nuovamente in procinto di vendere le sue licenze, come anticipato da diverse agenzie di stampa e confermato dal ministero dell’Energia tunisino ad aprile 2021.

Intanto, nel maggio del 2022, diversi media tunisini riportano la notizia secondo cui il ministro della Giustizia avrebbe autorizzato l’avvio di indagini penali a carico di alcuni dirigenti di tre società. Tra queste ci sarebbe anche la Sitep, società co-fondata da Eni, di cui la multinazionale italiana detiene il 50 per cento. Da noi contattati per avere chiarimenti sulla vicenda, sia Eni che il ministero della Giustizia hanno preferito non rispondere.

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