Il governo Meloni è riuscito nell’impresa di mettere d’accordo la Cgil di Maurizio Landini e la Confindustria di Carlo Bonomi: entrambi ritengono insufficienti le politiche a tutela di salari e lavoro che dovrebbero essere inserite nella legge di Bilancio. Al momento, gli interventi si limitano alla proroga del taglio del cuneo fiscale di due punti per i redditi fino a 35mila euro e all’aumento della soglia di detassazione dei fringe benefit. Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, ha dichiarato: «Le misure in favore dei fringe benefit non ci convincono molto. Primo perché la platea dei lavoratori che potrebbe usufruire di questa agevolazione è molto ridotta. Secondo, non ci convince perché si sposta la palla nel campo delle imprese».

Landini ha spiegato: «Per chi lavora c’è solo l’aumento a tremila euro dei fringe benefit che però è nella discrezionalità dell’impresa: inviteremo categorie e Rsu ad avanzare richieste nei luoghi di lavoro perché questa somma vada a tutti i lavoratori». Quello che manca a questo quadro è che i fringe benefit non solo vanno a pochi, ma, più grave, vanno ai pochi più ricchi.

La distribuzione dei bonus aziendali, infatti, è influenzata dalla dimensione dell’impresa, dal settore in cui le aziende operano, e si concentra in stragrande maggioranza nella fascia dei lavoratori dipendenti con redditi maggiori. Per scoprirlo bisogna analizzare i dati dell’Indagine sul reddito e le condizioni di vita coordinata da Eurostat (Statistics on Income and Living Conditions, Eu Silc): per l’Italia raccoglie le cifre fornite dall’Istat, al momento le ultime disponibili si riferiscono al 2018, ed è l’unica banca dati che registra con precisione l’apporto dei benefit aziendali ai redditi lordi dei lavoratori dipendenti. Includendo tutto, dall’auto aziendale fino ai bonus nel campo del welfare. Considerando tutti i lavoratori del settore pubblico e del settore privato, i benefit valgono circa 383 euro lordi sul reddito annuo. Il dato è così basso perché la maggior parte è completamente esclusa, e infatti stando all’indagine europea in Italia il 19 per cento dei lavoratori ottiene in media poco meno di duemila euro dai benefit aziendali.

Le dimensioni aziendali

Chi sono allora coloro che ne beneficiano e che quindi sarebbero avvantaggiati dalla detassazione voluta dal governo? Sono più uomini che donne, il 21 per cento dei dipendenti maschi ha una porzione del suo reddito in benefit, contro il 16 per cento delle donne. «Le donne sono pagate di meno in generale e sono impiegate in settori dove le aziende sono di dimensioni più piccole», dice Michele Raitano, professore di economia politica alla Sapienza di Roma. La dimensione aziendale conta molto: sono le aziende più grandi e con maggiori dipendenti ad avere programmi di welfare più sviluppati. Secondo l’indagine Eu Silc, i beneficiari sono il 31 per cento dei dipendenti delle imprese con più di 50 dipendenti, contro il 16 per cento di quelle tra i dieci e i 49 dipendenti, e il 14 per cento di quelle sotto i dieci. In Italia, però, il 92 per cento delle aziende è sotto i 50 dipendenti. Dunque, quel 31 per cento di beneficiari è in realtà il 31 per cento di coloro che lavorano nel dieci per cento delle aziende italiane.

Le fasce di reddito

La differenza di distribuzione dei bonus per fasce di reddito è la più significativa: divisi i dipendenti in dieci fasce di reddito, da chi guadagna meno di 5.700 euro lordi l’anno fino all’ultima fascia di chi guadagna più di 42.800 all’anno, il 45 per cento della fascia di reddito più ricca, cioè quasi un lavoratore su due, beneficia dei benefit aziendali, contro il 6 per cento della fascia più povera.

Il rapporto tra fasce di reddito e benefit è quasi lineare: ha beneficiato di bonus il 34 per cento dei lavoratori con redditi tra i 33.800 e i 42.800 euro lordi, il 21 per cento di chi ha guadagnato oltre i 25mila euro, il 13 per cento di chi ha registrato un reddito tra i 19.200 e i 22.500 euro, l’11 per cento di coloro con un reddito tra i 15.200 e 19.200 e giù a scendere. Insomma, i fringe benefit sono regressivi e detassarli è un vantaggio per i lavoratori più ricchi. Anche la divisione tra settori è significativa, i beneficiari sono concentrati in alcuni comparti industriali: primo fra tutti quello finanziario-assicurativo, dove più di un lavoratore su due, il 52 per cento, ha beneficiato di fringe benefit, seguiti dal 35 per cento dei lavoratori della Pubblica amministrazione e del comparto della difesa, e dal 31 per cento di chi lavora nell’informatica e nelle telecomunicazioni. Giù fino ad arrivare allo 0,2 per cento di chi è dipende di aziende che si occupano di trasporti e magazzinaggio.

Marco Osnato, esponente storico della destra milanese, ora promosso presidente della commissione Finanze della Camera in quota Fratelli d’Italia, ha dichiarato a proposito dei fringe benefit: «Io ho fatto il direttore del personale in un’azienda e so quanto il welfare aziendale possa essere una leva su cui lavorare per rendere più pesanti le buste paga. Non risolve il problema dei bassi salari, ma dà uno strumento a imprese e sindacati per fare una contrattazione più innovativa». Il problema è quali tipi di aziende utilizzano questa contrattazione e a favore di quali lavoratori. Del resto, Osnato è consapevole che il problema dei bassi salari, quelli bruciati dalla fiammata dell’inflazione, resta. E, a giudicare dalle scelte annunciate per la legge di Bilancio, è destinato ad aggravarsi.

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