C’era una volta una buona riforma, quella sugli anziani non autosufficienti, già ora 3,5 milioni di persone destinate ad aumentare irreversibilmente nei prossimi anni. Una riforma attesa almeno dagli anni Novanta, alla quale gli altri Paesi europei avevano già messo mano da tempo, prevista finalmente dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, disegnata durante il governo Draghi e approvata sotto il governo Meloni con voto del Parlamento praticamente unanime. Ma alcune settimane fa, con il decreto che doveva renderla operativa, la nostra potenziale buona riforma è stata svuotata di contenuto e tradita nelle intenzioni. Nell’ultima conferenza Stato-Regioni temiamo sia stata irrimediabilmente azzoppata.

Torniamo a marzo del 2023 per ricostruire come il governo sia riuscito con poche, pessime mosse, a privare di credibilità la legge 33, la riforma in questione. A primavera dello scorso anno dunque, perfettamente in linea con le previsioni del Pnrr, essa viene licenziata dal Parlamento: un po’ pasticciata nella forma, ma positiva per il merito dei suoi contenuti e apprezzabile per il metodo.

Per il merito, poiché guarda alla condizione specifica della non autosufficienza degli anziani a 360 gradi, mettendo a fuoco l’insieme degli interventi che devono riguardarli: quelli domiciliari, quelli residenziali e quelli monetari, e ponendo le basi per migliorarli, valorizzarli e qualificarli. In che modo? Prevedendo un’assistenza domiciliare pensata su misura per gli anziani non autosufficienti e le loro necessità socio-sanitarie di lungo corso, non legate a singole prestazioni come ora è; immaginando forme di residenzialità di diversa tipologia, e con standard sia professionali sia alberghieri all’altezza dei bisogni delle persone assistite; definendo la necessità di nuove forme di prestazioni monetarie comparate alla gravità del caso, alla intensità del bisogno, alla disponibilità di servizi qualificati, e lontani dalla logica dell’attuale indennità di accompagnamento uguale per tutti.

Per il metodo perché bipartisan, come dovrebbero esserlo tutte le riforme che vogliono costruire un sistema di welfare capace di guardare al futuro e non all’immediato, e messa a punto accogliendo gran parte delle proposte provenienti dalla community civica impegnata su questo tema e stretta in un patto per la non autosufficienza di più di 60 fra enti e organizzazioni.

La retromarcia

Tutti contenti dunque, e pronti per passare alla fase dei decreti attuativi, destinati a dare corpo alla cornice di una legge buona ma, in quanto legge-delega, ancora troppo generale. Ed è qui che la rotta del governo si è invertita e la riforma, presentata con convinzione dall’esecutivo, ha cominciato a mostrare segnali di progressivo indebolimento.

Intanto, il primo segnale negativo è stata l’assenza nella legge di bilancio di risorse dedicate: nessuna riforma di respiro può avvenire a invarianza di bilancio e la mancanza di risorse è lo scoglio principale su cui si è incagliata l’intesa delle Regioni. L’altro è la protesta delle Regioni stesse per non essere state minimamente coinvolte nella costruzione del provvedimento, per non essere state neppure audite.

E poi, ultimo, decisivo, segnale negativo, il decreto emanato qualche settimana fa che non contiene nulla di quanto la riforma prometteva nelle linee generali, anzi per alcuni aspetti in particolare ne rappresenta il rovesciamento. Nessuna specifica su un’assistenza domiciliare ad hoc per la non autosufficienza; un generico riferimento alla residenzialità per la quale, come per decine di altre questioni, si rimanda a ulteriori provvedimenti; e dulcis in fundo, il capovolgimento dell’idea di una prestazione universale commisurata al bisogno assistenziale a fronte di un bonus previsto dal decreto e presentato come uno straordinario intervento di politica pubblica sugli anziani, che in realtà si limita a ristorare con poche centinaia di euro un numero assai contenuto di cittadini, over 80 e con ISEE non superiore a 6.000 euro.

Insomma, quasi tutto da rifare. A questo esito scoraggiante si sarebbe potuto trovare un correttivo nel consentire e, anzi, favorire spazi di partecipazione a tutti quei soggetti rilevanti rispetto alla questione.

Ma questa volta le porte della partecipazione, che nella fase ascendente della riforma sono rimaste aperte, il governo ha preferito chiuderle, perdendo la grande occasione di un processo riformatore condiviso e mettendosi nella condizione di ricevere a sua volta la porta in faccia da parte di tutte le Regioni.

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