L’ondata inflazionistica che ha sommerso le economie occidentali nel 2021-2022, per poi ritirarsi altrettanto rapidamente nel 2023, è stata per molti versi atipica, in quanto causata da fattori molto specifici lasciati in eredità dal Covid, come gli squilibri settoriali e la disarticolazione delle catene di approvvigionamento, o l’instabilità geopolitica e i suoi effetti sui mercati dell’energia.

Legato a questi fattori, su cui il Diario europeo si è dilungato a più riprese, c’è anche un comportamento dei mercati del lavoro, che ha sorpreso alcuni economisti. Quello che insegniamo ai nostri ragazzi nei corsi di economia è che esiste una relazione inversa tra tassi di disoccupazione e inflazione.

Quando l’economia si surriscalda la disoccupazione cala e i prezzi aumentano, mentre in una fase di rallentamento la prima aumenta mentre l’inflazione diminuisce. Questa relazione, a prima vista ragionevole, in realtà negli ultimi anni è stata raramente osservata nei dati.

In particolare, il calo dell’inflazione osservato a partire dalla fine del 2022 non è stato accompagnato da un aumento significativo della disoccupazione (anzi, in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, i mercati del lavoro non sono mai stati tanto in salute negli ultimi decenni). Questo, sia detto incidentalmente, conferma la tesi di molti economisti (tra cui il Diario europeo) per cui l’inflazione recente aveva poco a che fare con il surriscaldamento dell’economia e molto con fattori strutturali, su cui la politica monetaria ha un effetto limitato.

Un cambio di priorità

Ma c’è di più. Un gruppo di studiosi del centro di ricerca austriaco Wiiw ha appena pubblicato un interessante articolo che cerca di quantificare la distanza dalla piena occupazione di alcuni paesi europei (tra cui purtroppo non figura l’Italia, per mancanza di dati) e degli Stati Uniti.

I ricercatori trovano che in generale, a partire dagli anni Ottanta, la maggioranza dei paesi considerati si sono allontanati dal pieno impiego. È un lavoro interessante perché certifica una tendenza di lungo periodo comune a paesi molto diversi tra loro, e spinge ad interrogarsi su quanto i fattori generalmente invocati (globalizzazione, sviluppi politici, produttività e via di seguito) siano sufficienti a spiegarla.

A mio avviso, una ragione per cui la piena occupazione è oggi più l’eccezione che la regola è da ricercarsi in un cambiamento di paradigma che avvenne proprio a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta.

In Oltre le banche centrali (Luiss University Press) ho cercato di inquadrare il dibattito su cause ed effetti dell’inflazione recente in un’analisi storica, per cercare di trarne lezioni che vadano al di là dell’episodio del 2022.

Nel libro osservo come la svolta rigorista della Fed del 1980, personificata dal falco Paul Volcker, segna un cambiamento importante non solo nella politica economica, ma anche in ciò che viene considerato il fine da perseguire per la società. Fino a quel momento, economisti e policy makers avevano considerato la piena occupazione uno degli obiettivi prioritari della politica economica.

L’obiettivo principale

Durante gli episodi inflazionistici degli anni Settanta il dibattito verteva su come tenere l’economia vicina al sentiero di pieno impiego senza lasciar correre i prezzi. Per utilizzare un gergo tecnico, nessuno dubitava che il controllo dell’inflazione fosse un obiettivo intermedio, da perseguire per poter avvicinarsi all’obiettivo finale della piena occupazione.

Con la disinflazione di Volcker si fa invece strada l’interpretazione dell’inflazione degli anni precedenti come risultato di un tentativo da parte di governi (e banche centrali compiacenti) interessati a “drogare” l’economia a fini elettorali portando la disoccupazione a livelli troppo bassi e surriscaldando l’economia.

Questo giustifica l’argomento per cui la recessione e l’aumento del tasso di disoccupazione sono mali necessari per riportare i prezzi sotto controllo, cambiando l’ordine di priorità del policy maker. Il messaggio centrale del nuovo paradigma è che la politica economica debba occuparsi solo di tenere sotto controllo l’inflazione, sacrificando eventualmente, comunque temporaneamente, l’impiego.

In ogni caso, a medio termine, la disoccupazione, può essere combattuta solo con le riforme e non con l’espansione monetaria (o di bilancio).

Insomma, a partire dagli anni Ottanta l’inflazione ha cessato di essere l’obiettivo intermedio di decisori politici interessati al benessere e al pieno impiego, diventando l’obiettivo principale della politica economica; e la disoccupazione è diventata lo strumento per raggiungere questo obiettivo.

Prezzi stabili

Nel 2021-22, mentre infuriava il dibattito sulla svolta restrittiva della Fed e della Bce, economisti come Larry Summers affermavano che era necessario un aumento della disoccupazione per riportare i prezzi sotto controllo: è meglio un rallentamento moderato della crescita oggi che una vera e propria depressione domani. Detto altrimenti, la preferenza delle banche centrali per la stabilità dei prezzi si è spinta fino a sacrificare l’occupazione.

La globalizzazione e la precarizzazione del lavoro, la minaccia di delocalizzazione dell’attività produttiva hanno poi fatto il resto, eliminando la pressione al rialzo dei salari (e quindi le spinte inflazionistiche) anche per livelli poco elevati del tasso di disoccupazione. Nel 1997, il presidente della Fed Alan Greenspan poteva così affermare, con un certo compiacimento, che «L’atipica moderazione delle remunerazioni è evidente da alcuni anni e sembra essere in gran parte dovuta a una maggiore insicurezza dei lavoratori».

Quali lezioni dobbiamo trarre da queste considerazioni? La prima, e più importante, è che occorre un nuovo cambiamento di paradigma, che riporti l’obiettivo della piena (e buona) occupazione in cima alle priorità della politica.

La visione che si è imposta negli anni Ottanta era incentrata sull’idea che mercati efficienti sarebbero stati in teoria capaci di raggiungere il pieno impiego; di fatto, invece, ha finito per sacrificare il benessere dei lavoratori. Questo paradigma è uscito malconcio dalla successione di crisi che ci colpiscono dal 2008; tuttavia, come dimostra il dibattito recente sull’inflazione, o il ritorno dell’ossessione per la riduzione del debito, esso orienta ancora le scelte dei policy makers.

La seconda lezione, che in qualche modo segue, è che gli obiettivi di inflazione e occupazione possono essere perseguiti insieme e che non occorre sacrificare l’uno all’altro. Certo, questo implica un utilizzo coordinato dei diversi strumenti della politica economica, molto più complesso di quello in fondo semplicistico predicato dal vecchio paradigma. In economia, come in molti altri campi, sarebbe ora di tornare a cercare soluzioni “giuste” e non accontentarsi di soluzioni “semplici”

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