Sostiene Giorgia Meloni che la produzione di biocarburanti è uno dei pilastri del Piano Mattei per l’Africa. Se ne sta occupando l’Eni, di fatto il braccio operativo del governo in questo come in molti altri progetti nel Sud del mondo.

«Stiamo crescendo», ha dichiarato di recente l’amministratore delegato Claudio Descalzi, spiegando che il gruppo petrolifero pubblico può già produrre 1,65 milioni di tonnellate l’anno di carburanti ricavati principalmente dalla raffinazione di oli vegetali e quindi in grado di ridurre di molto le emissioni di CO2. «Entro il 2030 arriveremo a 7 milioni di tonnellate», si è sbilanciato Descalzi. Un obiettivo che appare ambizioso e forse addirittura fuori portata, secondo quanto afferma un report ancora inedito di Transport & Environment (T&E), associazione che riunisce un gruppo di ong che promuovono soluzioni ambientalmente sostenibili per ogni tipo di trasporto, dall’auto agli aerei alle navi.

Obiettivi mancati

«Il piano di Eni in Africa per la produzione di biocarburanti è al palo», si legge nel rapporto realizzato da T&E in collaborazione con la rivista The Continent. Il gruppo petrolifero negli anni scorsi ha siglato accordi con sei paesi africani per sviluppare alcuni centri denominati agri-hub, che forniranno olio vegetali destinato alle bioraffinerie di Gela e di Venezia.

Il progetto più avanzato è quello in Kenya dove però, secondo quanto sostiene T&E, Eni non «è riuscita a raggiungere nemmeno un quarto dei suoi obiettivi di produzione per il 2023». In sostanza, nei piani annunciati dall’azienda pubblica, già l’anno scorso il flusso di materia prima dal paese africano verso le bioraffinerie italiane avrebbe dovuto raggiungere le 20mila tonnellate. Invece, secondo quanto emerge dall’indagine di T&E, le spedizioni partite dal Kenya ammontano in totale a circa 7.300 tonnellate. Poco più di un quarto, quindi, di quanto previsto inizialmente.

Il progetto di Eni punta a coinvolgere un gran numero di agricoltori, fino a 400mila. Attualmente, spiegano fonti aziendali, sono circa 80mila le famiglie che hanno aderito all’iniziativa.

Il problema è che il raccolto di ricino, i semi da cui vengono estratti gli ori da raffinare, è stato falcidiato dalla siccità, la più grave negli ultimi 40 anni. Eppure, sottolinea T&E, proprio il ricino era stato presentato da Eni come una coltura resistente alla mancanza d’acqua e adatta alla coltivazione su terreni di scarsa qualità.

Le testimonianze raccolte sul campo dalla ong ambientalista confermano le grandi difficoltà a cui hanno dovuto far fronte gli agricoltori. Molti di loro accusano l’azienda che non avrebbe fornito un «supporto adeguato».

Da Eni spiegano che «sono in corso progetti relativi all’adozione di varietà di sementi migliorate e di buone pratiche agricole che consentiranno di rispondere anche a eventi di siccità estrema». Nel frattempo, però, la produzione è ancora lontana dall’obiettivo fissato in partenza. Per “motivi di sensibilità commerciale” l’azienda non fornisce dati precisi sui quantitativi già spediti alle bioraffinerie. «Alcune migliaia di tonnellate», è la risposta alla domanda in proposito formulata da Domani.

Di certo non sarà facile raggiungere quota 200mila tonnellate entro il 2027, così come previsto nei piani del gruppo di Descalzi. In Congo l’approccio è stato diverso da quello keniano. Nell’altro paese dove Eni punta a raccogliere materia prima per i biocarburanti sono stati siglati accordi con grandi aziende agricole. Anche qui, però, i ritardi non mancano, afferma il report di T&E, che mette in dubbio che ci siano reali benefici per le popolazioni locali, visto che, si legge nel rapporto, le «terre tradizionalmente coltivabili sono state espropriate dal governo a favore delle aziende con cui la multinazionale sta lavorando». Dal Congo al momento non è arrivato nessun carico di olio vegetale verso l’Italia. «A oggi sono in preparazione le attività per la prima stagione agricola del 2024», spiegano da Eni.

Bio ma non troppo

Se queste sono le premesse, la produzione di biocarburanti su cui ruota una parte importante del Piano Mattei rischia di restare ancora a lungo una semplice ambizione, un progetto a lungo termine su cui gravano pesanti incognite. Carlo Tritto, policy officer di T&E Italia, dubita che le nuove fonti energetiche su cui Eni sta investendo possano un giorno portare sviluppo in Africa, tanto meno rappresentare una soluzione per i bisogni energetici dell’Europa.

Parole in netto contrasto con lo scenario dipinto da Eni, che considera le coltivazioni destinate ai biocarburanti un contributo allo sviluppo dei territori. I numeri però, restano molto piccoli. Nei conti del gruppo del 2022, gli ultimi disponibili tra quelli depositati alla Sec, l’organo di vigilanza della Borsa Usa, si legge che la produzione dei cosiddetti biofuels ammonta a 428mila tonnellate, in diminuzione rispetto alle 585mila registrate del 2021. Cifre che rappresentano una frazione minima della capacità di raffinazione del gruppo, concentrata sul petrolio.

Nel piano strategico 2023-2026 di Eni, gli investimenti per lo sviluppo di questo tipo di carburanti ammontano a 3,4 miliardi di euro, contro i 23 miliardi destinati ai progetti nell’oil&gas tradizionale. Del resto, il contributo reale dei biocarburanti alla decarbonizzazione è messo in dubbio da numerosi analisti. In primo luogo, per una questione di quantità. Questo tipo di carburante copre soltanto l’1,7 per cento del fabbisogno italiano e non si vede come sarà possibile estendere i terreni coltivati in misura tale da aumentare la produzione in modo sostanziale. Anche il prezzo difficilmente diventerà competitivo in confronto, per esempio a quello dell’alimentazione elettrica. Al momento, insomma, e per molto tempo ancora, i biocarburanti rischiano di restare un diversivo sulla strada che pare sempre più obbligata dell’abbandono delle fonti fossili. Nulla che assomigli a una soluzione reale al problema delle emissioni.

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