Per Giorgia Meloni era «una cosa di destra» che colpisce un profitto «ingiusto». Matteo Salvini invece aveva parlato di «misura di equità sociale» che avrebbe garantito risorse per finanziare il “taglio delle tasse” e gli “aiuti per l’acquisto della prima casa”.

Parole al vento. Della tassa sugli extraprofitti delle banche ormai non resta che un’eco lontana, quella delle polemiche che neppure tre mesi fa accompagnarono l’annuncio del tributo. Una tassa nuova di zecca fortissimamente voluta da una parte della maggioranza, Lega e Fratelli d’Italia, e accettata con qualche mal di pancia dal partito che fu di Silvio Berlusconi, i cui eredi, incidentalmente, possiedono una quota rilevante di un istituto di prima grandezza come Mediolanum.

Scappatoia

È successo che dopo settimane di balbettii e imbarazzi, il ministero dell’Economia ha concesso una comoda via d’uscita ai banchieri che, manco a dirlo, ne stanno approfittando. Le prime a defilarsi sono state Intesa e Unicredit, i due campioni nazionali e adesso è probabile che gran parte dei concorrenti più piccoli segua l’esempio delle banche maggiori. E così, salvo sorprese clamorose, la tassa sugli extraprofitti, quella “cosa di destra – per dirla con Meloni - che colpisce i profitti ingiusti”, finirà per portare poco o nulla nelle casse dello Stato.

Una fine ingloriosa per un’imposta che in base ai calcoli degli analisti avrebbe potuto fruttare all’Erario fino a 3 miliardi. La svolta è arrivata a metà settembre, dopo la reazione della lobby dei banchieri, presa alla sprovvista dal colpo basso del governo, a cui si è aggiunta la Bce che da Francoforte ha criticato il tributo per i suoi possibili effetti negativi sulla stabilità del sistema bancario e più in generale sull’economia.

Ecco, allora, che con un emendamento al cosiddetto decreto Asset, il governo ha riscritto la norma contestata con l’effetto pratico di disinnescarla. Infatti, secondo la versione approvata dal Parlamento, le banche possono evitare di pagare l’imposta. Come? Semplice: è sufficiente vincolare in una riserva di bilancio ad hoc una somma pari a due volte e mezza l’importo della tassa. Intesa mercoledì ha annunciato che accantonerà a patrimonio poco più di 2 miliardi di euro, evitando così di versare 898 milioni nelle casse dello Stato.

E in aggiunta l’ad Carlo Messina ha comunicato che 1,5 miliardi verranno destinati dalla banca a «progetti per la riduzione delle disuguaglianze».

Il giorno prima, Unicredit aveva suonato una musica simile. Dopo aver chiuso un trimestre da record, con utili per 6,7 miliardi realizzati tra gennaio e settembre, l’istituto guidato da Andrea Orcel ha destinato a riserva 1,1 miliardi invece di pagare 440 milioni per il balzello straordinario deciso dal governo. I due marchi leader del credito nazionale hanno aperto la strada e adesso tutti si aspettano che nei prossimi giorni il resto del mercato si tolga d’impaccio sfruttando la scappatoia gentilmente offerta dal governo. Nel frattempo, sui conti delle banche continua a splendere il sole. I tassi d’interesse restano comunque ai massimi degli ultimi dieci anni, anche se ieri la Bce si è presa una pausa rinunciando a un nuovo ritocco all’insù del costo del denaro. Questo significa che nei prossimi mesi gli istituti di credito potranno contare ancora sulle stesse condizioni di mercato che hanno fin qui garantito utili da record.

Gettito zero

Il Tesoro invece deve rassegnarsi a cercare altrove le risorse che, sulla carta, dovevano arrivare dalla nuova imposta. Nelle settimane scorse, fonti governative hanno precisato che, prudenzialmente, nelle carte illustrative del decreto non era mai stato indicato il possibile gettito della tassa sugli extraprofitti. Insomma, nessuno si era azzardato a indicare con precisione l’incasso previsto grazie al balzello imposto ai banchieri. Certo è che qualche miliardo per sostenere i conti di una manovra di bilancio più che mai pericolante erano stati di sicuro messi in preventivo. Difficile spiegare, altrimenti, gli annunci di Salvini sui soldi presi ai banchieri per aiutare le famiglie bisognose. “Nessuna retromarcia”, aveva scandito il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, per difendere la versione riveduta e corretta del decreto. Anzi, Giorgetti aveva descritto la versione finale della norma come “una grande operazione di politica industriale e bancaria, al termine della quale le banche italiane saranno tra le più solide d’Europa”. E i “profitti ingiusti”? E la “cosa di destra”? Parole al vento.

© Riproduzione riservata