La guerra in Ucraina forse sta cambiando il mondo, ma certamente ci sbatte ancora una volta in faccia il potere del manipolo di paesi con in mano le leve di controllo dei prezzi dell’energia.

Ieri mentre a Washington la Casa Bianca annunciava il bando alle importazioni di petrolio, gas e carbone russi, facendo schizzare il prezzo del petrolio sui mercati e la benzina alle pompe, e a Mosca Vladimir Putin rispondeva firmando un decreto per limitare export e import di materie prime incaricando il governo di stilare entro un giorno l’elenco degli stati interessati dal bando, a Berlino il vicecancelliere e ministro degli Affari economici e dell’energia, Robert Habeck, lanciava un appello urgente all’Opec per aumentare la produzione di greggio.

«Alcuni nostri alleati potrebbero non essere nella posizione di prendere la stessa decisione», ha detto ieri il presidente Joe Biden, esplicitando ciò che era già chiaro a tutti. «Stiamo lavorando di concerto con i nostri alleati europei per ridurre la loro dipendenza energetica dalla Russia», ha aggiunto. L’annuncio del presidente statunitense segue quello del Canada e le decisioni prese da alcune compagnie private: ieri la britannica Shell ha annunciato lo stop all’utilizzo di tutti i prodotti russi. Entro fine anno dovrebbe fare lo stesso la Gran Bretagna limitandosi al petrolio. L’Agenzia internazionale per l’energia ha già promesso lo sblocco di 60 milioni di barili di riserve strategiche.

L’obiettivo, concordato con l’Europa, è nelle parole di Biden: «Infliggere un dolore ancora maggiore all’economia russa». C’è però un prezzo da pagare, come ha ammesso il presidente americano. Sarà sulle spalle dei cittadini, ma in modo diverso fra Stati Uniti ed Europa.

Il prezzo che rischiano di pagare gli Stati Uniti è quello della stagflazione, di cui si leggono segni preoccupanti nell’andamento dei buoni del tesoro americano. L’economia europea è in una situazione diversa, ancora impegnata a recuperare lo shock sulla domanda prodotto dalla pandemia. Allo stesso tempo il prezzo che l’Unione europea pagherebbe per un embargo ai prodotti energetici russi non è nemmeno lontanamente comparabile con quello degli Stati Uniti.

Ieri la confindustria tedesca ha di nuovo messo in guardia rispetto a decisioni avventate sull’energia e il vicecancelliere di Berlino, prima di appellarsi ai signori del petrolio, ha messo sùbito in chiaro che gli Stati Uniti non si aspettano dall’Europa che segua la loro strada.

Il peso della Russia

Secondo i dati più recenti dell’Ocse, aggiornati a novembre 2021, circa il 60 per cento delle esportazioni di petrolio della Russia è indirizzato ai paesi europei dell’organizzazione, mentre un altro 20 per cento va alla Cina. Per gli Stati Uniti il petrolio russo pesa per il 7 per cento sul totale importato, mentre solo per la Francia e l’Italia il 13, per la Germania il 30 per cento, per la Polonia il 53 per cento, per la Lituania addirittura è l’83 per cento di tutto il petrolio importato (e il 46 per cento sull’insieme dei progetti energetici). Numeri che parlano da soli.

I produttori di petrolio e gas, intanto, stanno giocando la loro partita in una scacchiera che corre parallela a quella del conflitto. All’ultima riunione dell’Opec+, che include 23 paesi capitanati proprio dalla Russia e dall’Arabia Saudita, hanno mantenuto i rialzi già previsti prima dello scoppio della guerra e raccolto le conseguenze. L’Iea se l’è presa con Emirati Arabi e sauditi, Bp intanto ha annunciato la ripresa delle attività in Libia, il Venezuela è tornato all’improvviso un interlocutore degli Stati Uniti. E al tavolo dei negoziati per l’accordo nucleare iraniano, dove le potenze occidentali negoziano fianco a fianco con i diplomatici russi, in un clima divenuto surreale negli ultimi giorni, Mosca ha cercato di condizionare l’accordo ai suoi interessi, di fatto complicando la normalizzazione delle relazioni con un’altra potenza petrolifera.

La Cina, invece, si muove come sempre con strategie più di lungo periodo e nel momento in cui i titoli dei grandi colossi delle materie prime russi sono a prezzi di saldo in Borsa, ha intavolato colloqui per eventuali acquisizioni attraverso le sue aziende di stato, dalla China National Petroleum alla Aluminum Corp of China. I titoli di Gazprom nell’ultimo mese hanno perso formalmente il 30 per cento del loro valore, ma in realtà il calo è vicino al 90 per cento considerando il crollo del rublo. Il colosso dell’alluminio Rusal formalmente ha perso il 20 per cento, in realtà molto di più.

Così, mentre la Cina si presenta all’occidente come attore prudente sul fronte politico, gli acquisti a prezzi stracciati di fronte alla Russia possono apparire come una mano tesa. In realtà, Pechino si assicura le forniture future, con una lungimiranza certamente maggiore di quella che ha avuto l’Europa.

 

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