Anche i pensionati, nel loro piccolo, s’arrabbiano. In particolare quelli che percepiscono gli assegni più alti, fortemente penalizzati dal meccanismo di rivalutazione introdotto quest’anno dal governo Meloni. E se finora i più indignati si limitavano a spedire lettere di proteste ai giornali, segnalando la perdita di potere di acquisto subita, ora la Uil-pensionati ha deciso di alzare il livello di scontro e di avviare una serie di cause per conto di un gruppo di iscritti, depositando le relative diffide all’Inps. In settembre scatterà una seconda fase, con l’invio delle cause ai diversi fori competenti. L’obiettivo, spiegano alla Uilp, è quello di ottenere la pronuncia della Corte Costituzionale sulla illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 309, della legge 29 dicembre 2022 n 197, cioè della legge di bilancio 2023 che ha previsto il taglio.

Nell’istanza-diffida, che Domani ha potuto consultare in anteprima, si legge: «Il criterio e l’entità (inadeguata e insufficiente) dell’aumento per la perequazione automatica della pensione per l’anno 2023 calcolato ed erogato dall’Istituto è manifestamente in contrasto con i principi fondamentali», richiamati anche dalla sentenza della Corte costituzionale del 2020, per la quale «la perequazione automatica delle pensioni deve essere volta a garantire nel tempo l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici e a salvaguardare il valore reale al cospetto della pressione inflazionistica» e «l’eventuale introduzione, da parte del legislatore, di meccanismi limitativi della perequazione pensionistica, incontra il limite, inderogabile e invalicabile, dell’osservanza dei principi di eguaglianza sostanziale... ed è soggetta a rigorosi vincoli quantitativi, temporali, di proporzionalità e di ragionevolezza».

Secondo la Uilp la manovra decisa dal governo Meloni non è ragionevole, trascina i suoi effetti di perdita di potere d’acquisto nel tempo rendendoli definitivi e si aggiunge ad una serie di analoghi interventi a sfavore dei pensionati introdotti ripetutamente negli anni passati. La diffida si conclude con la richiesta di ottenere la piena rivalutazione del trattamento pensionistico, intimando l’Inps a provvedere «al più favorevole ricalcolo dell’importo rivalutato di pensione» nonché alla liquidazione e al pagamento di tutte le maggiori somme indebitamente trattenute con decorrenza da gennaio 2023».

Una platea di 3,5 milioni

La platea interessata dall’iniziativa della Uilp è composta da circa tre milioni e mezzo di pensionati che percepiscono un importo superiore a quattro volte il trattamento minimo Inps (pari a 2.101,52 euro mensili lordi). È una categoria poco amata, considerata «ricca» e utilizzata spesso come un bancomat per far fronte alle frequenti emergenze della finanza pubblica. Ma in realtà si tratta di ex lavoratori che nella loro carriera hanno versato fior di contributi, che sono andati in pensione stringendo un «patto» con lo Stato per ricevere una certa cifra, indicizzata all’inflazione, per il resto della vita e che, come ha scritto su Lavoce.info Fernando Di Nicola, economista ed ex-dirigente nella direzione studi Inps, «non hanno la possibilità di variare i prezzi dei propri servizi, come può accadere agli autonomi, o contrattare i recuperi dell’inflazione, come può accadere ai dipendenti».

Sono due i meccanismi che colpiscono i pensionati più «ricchi». Per il biennio 2023-2024 la Legge di Bilancio approvata nel dicembre scorso prevede un adeguamento all’inflazione pari all’80 per cento per le pensioni da quattro volte a cinque volte il minimo (da 2.102 a 2.627 euro lordi); al 55 per cento per gli assegni da 2.627 euro a 3.152 euro; al 50 per cento tra quest’ultimo importo e 4.203 euro; al 40 per cento fino a 5.254 e al 35 per cento per gli importi superiori. Ma accanto al taglio della rivalutazione si aggiunge un secondo danno: la perequazione viene calcolata sull’intero reddito pensionistico e non per scaglioni, un sistema più favorevole che aveva re-introdotto il governo Draghi. Con il risultato che adesso un pensionato con una rendita tra 3.152 euro e 4.203 euro lordi si vedrà̀ rivalutata l’intera pensione solo della metà dell’inflazione. E con un costo della vita che viaggia intorno al 6-7 per cento gli effetti della manovra di Meloni sono molto pesanti: secondo la Uil il taglio subito da una pensione di 3.600 euro lordi mensili sarebbe quantificabile in circa 1.427,47 euro l’anno. Un assegno di 4.100 euro lordi perderebbe invece 1.546,10 euro l’anno. Per una pensione da 5.600 euro lordi, la riduzione sarebbe di 2.699,13 euro, cioè 207,63 euro al mese.

La tosatura è per sempre

«Danno che da gennaio 2023 produce effetti sulla pensione per il resto della vita del pensionato» ha sottolineato Carmelo Barbagallo, segretario generale della Uilp. «Infatti, ogni mancato aumento non ha effetti solo sull’anno di applicazione ma perdura per sempre sulla pensione diminuendone così in modo permanente il valore». «Questo ulteriore depotenziamento» continua il sindacato «si aggiunge quindi ai tagli, blocchi e congelamenti che dal 2011 (governo Monti) sono stati operati sulle pensioni fino al 2021, un decennio che ha impattato notevolmente sul potere d’acquisto dei pensionati con gravi danni che si moltiplicarono al crescere del costo della vita».

Ma quali probabilità di successo avrebbe questa causa davanti alla Corte costituzionale? Quando alcuni pensionati fecero ricorso contro le misure introdotte dalla legge di bilancio 2019 dal governo Conte I, che frenavano o, oltre certi importi, bloccavano la rivalutazione dei trattamenti pensionistici, la Consulta diede loro torto: ritenne infatti costituzionalmente legittimo il provvedimento con cui il legislatore può «raffreddare» la rivalutazione automatica delle pensioni di elevato importo, a condizione però che la finalità della misura sia il perseguimento di obiettivi interni al sistema previdenziale aventi un orizzonte temporale predefinito (nella specie triennale). Ora però l’inflazione è elevata e gli interventi a danno dei pensionati continuano da anni. La Corte potrebbe cambiare idea.

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