L’esecutivo di Giorgia Meloni è il frutto di una coalizione di conservatori e fa cose da conservatori. Non ama l’ambientalismo, ostacola la moneta elettronica, frena sui diritti civili. Atteggiamenti e politiche evidenti a tutti. Ma un po’ meno evidente è un filo rosso che lega tante prese di posizione dei suoi ministri: la totale mancanza di attenzione a consumatori e concorrenza. Ovviamente quando si tratta di tenere buoni i cittadini di fronte al caro energia il governo interviene subito aprendo la borsa. Ma se si deve scegliere tra la tutela di un interesse comune che riguarda tutti e quello di una lobby, non c’è gara: aziende e padroncini vincono sempre. Parafrasando Churchill, mai così tanti pagano per così pochi.

Da che parte sta Meloni: con i cittadini in fila in attesa di un taxi (a Milano la situazione sta diventando drammatica) o coi titolari di una licenza? Con questi ultimi, è ovvio, anche se obtorto collo gli ha fatto ingoiare l’obbligo del Pos. Il governo sta con chi vorrebbe andare in spiaggia godendo dei servizi che, nella vicina Francia, sono gratuiti, o con i gestori degli stabilimenti balneari che monopolizzano le coste? Inutile rispondere, lo sapete già.

La carne coltivata

Si profila all’orizzonte un nuovo prodotto, la carne coltivata, che potrebbe ridurre l’impatto degli allevamenti intensivi sull’ambiente ampliando la possibilità di scelta dei consumatori e l’esecutivo che fa? Lo blocca con un disegno di legge il cui valore è quasi inutile, visto che l’Italia non può vietare l’importazione di un bene accettato nel resto d’Europa. Ma senza alcuno scrupolo il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida ha affermato: «Il disegno di legge che vieta la produzione e la commercializzazione di cibo sintetico nasce dalle istanze di associazioni di categoria, agricoltori, regioni e consigli comunali, di diverso colore politico, che hanno approvato provvedimenti contro gli alimenti prodotti in laboratorio». E i consumatori? Non pervenuti, l’importante è proteggere gli allevatori.

La difesa «senza se e senza ma» degli interessi delle imprese sfiora il ridicolo quando gli esponenti della maggioranza si trovano fianco a fianco con i produttori. All’ultimo Vinitaly il ministro degli Esteri Antonio Tajani è arrivato a dire che «il vino fa bene, con buona pace di quelli che dicono che il vino fa male. Noi difenderemo sempre la qualità del nostro prodotto, difenderemo il principio che il vino non è una sostanza cancerogena».

Intendiamoci, Vinitaly non è il luogo più adatto per affermare che il vino provoca il cancro, ma il ministro poteva evitare di sbracare e limitarsi a elogiare la buona qualità delle nostre bottiglie senza fare disinformazione. Per l’Organizzazione mondiale della sanità, infatti, non esistono livelli sicuri di consumo di alcol. E per l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro «il messaggio valido e corretto in termini di salute pubblica dovrebbe sempre mettere in evidenza che l’alcol incrementa il rischio di ammalarsi di molte malattie, tra cui anche i tumori».

Le liberalizzazioni

Le liberalizzazioni non compaiono mai nei discorsi dei politici di questa maggioranza. La legge sulla concorrenza viene azzoppata per difendere gli ambulanti. Non si parla di gare per i servizi pubblici locali, a costo di incagliare il Pnrr, né di rinnovo delle concessioni nel settore idroelettrico o delle acque minerali, o di concorrenza nella distribuzione carburanti e farmaci. E se i ministri devono affrontare le liberalizzazioni di spiagge o porti, lo fanno con il fastidio di chi è costretto. Del resto la destra italiana è fatta così: fin dall’esordio di Forza Italia in parlamento, sui banchi di Camera e Senato sono arrivate frotte di professionisti, avvocati e qualche farmacista (oggi i rappresentati di questa categoria sono di FdI e del partito di Berlusconi) pronti a difendere i propri privilegi. E se la maggioranza si occupa di class action, scrive un decreto legislativo che probabilmente verrà corretto perché non conforme alla direttiva europea.

Si potrebbe replicare che l’atteggiamento del governo rispecchia lo scarso interesse degli italiani verso i temi della concorrenza e che gli appelli lanciati ogni anno dall’Autorità antitrust cadono nel vuoto. In parte è vero. Ma c’è stato un momento in cui sulle liberalizzazioni si creò una convergenza tra cittadini e governo, al tempo delle famose «lenzuolate» di Pier Luigi Bersani che aprirono al mercato interi settori dell’economia. Una ventata di aria fresca che face abbassare i prezzi di molti servizi. E che avvicinò i politici ai cittadini. Un momento che sfortunatamente non si è ripetuto più.

Peccato, perché come la Banca d’Italia aveva evidenziato già nel 2009, anno di istituzione della negletta legge annuale sulla concorrenza, se in alcuni settori si giungesse a livelli di competizione analoghi a quelli degli altri paesi dell’area euro «nel lungo periodo il prodotto crescerebbe di quasi l’11 per cento, il consumo privato e l’occupazione dell’8, gli investimenti del 18; i salari reali ne beneficerebbero significativamente, con un incremento di quasi il 12 per cento».

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