Mentre la situazione internazionale e quella delle finanze pubbliche si fanno sempre più difficili, arriva il decreto Milleproroghe. Già il nome è forse l’emblema della situazione in cui versano le istituzioni e la politica in Italia. Quel che doveva essere temporaneo diventa, di proroga in proroga, la norma. E non ci si stupisce nemmeno più.

Non è ovviamente un problema solo di oggi, ce lo trasciniamo da tempo. Ma lo slancio con cui questo governo cavalca l’onda dei nostri mali per poterne ricavare, con nonchalance, la trama della sua politica economica questo, sì, fa sempre un certo effetto. Vale per la forma, naturalmente, ma vale forse ancora di più per i contenuti del provvedimento.

Qual è la visione di paese che emerge da questa tovaglia appezzata di proroghe, appunto, eccezioni e favori? Qual è la bussola del governo? La bussola non c’è. Si naviga a vista, in un mare increspato, come confermano le stime al ribasso del Pil e il rischio di una nuova manovra correttiva, lungo il piano inclinato del declino.

La rottamazione

Il cuore del decreto è la riapertura dei termini per il pagamento delle prime tre rate della cosiddetta rottamazione-quater delle cartelle esattoriali (fino al 15 marzo), cui si aggiunge un nuovo condono (pardon, «ravvedimento speciale») per i redditi del 2022 non dichiarati l’anno scorso.

Il governo ha una grande speranza di racimolare da queste misure risorse consistenti, nel breve termine (5,4 miliardi solo dall’estensione della rottamazione-quater), oltre magari a un po’ di consensi nella sua tradizionale base elettorale. Dimentica però che esse minano alla radice la lotta all’evasione: l’effetto netto per le finanze pubbliche è negativo, ricordiamocelo, nel medio e lungo periodo; quello sui fondamentali di un paese avanzato, dall’etica pubblica al rispetto delle leggi, altrettanto.

Nella stessa direzione va l’altro piatto forte del decreto: la nuova proroga di sei mesi dello scudo erariale, che solleva i dipendenti e gli amministratori pubblici da responsabilità contabili in caso di colpa grave. Curioso contrappasso: è una norma introdotta dal Conte II, nel 2020, in piena pandemia, poi prorogata da Mario Draghi, che adesso Giorgia Meloni, di entrambi quei governi fiera avversaria, di proroga in proroga, rischia di rendere strutturale.

Non sappiamo se mai arriverà una vera riforma della responsabilità amministrativa, peraltro non semplice; sappiamo invece, di nuovo, che queste proroghe prolungate, la logica dell’emergenza estesa senza remore e senza criterio, non fa che peggiorare le cose, sia dal punto di vista degli incentivi al sistema, sia da quello della sua tenuta e logica complessiva.

Parlamento umiliato

Il resto, la forma, è l’immagine del parlamento, luogo della più alta funzione democratica, di nuovo umiliato: le lunghe attese dei pareri ministeriali, nelle commissioni, e poi le maratone notturne; l’inserimento di innumerevoli emendamenti sui temi più vari e senza alcuna visione; quindi la compressione dei tempi per la discussione nelle due camere.

È dal naufragio e dallo svilimento del confronto parlamentare, che nasce e si alimenta la fascinazione per l’uomo (o per la donna) forte. È con la logica dell’emergenza permanente o delle proroghe ostinate che i diritti finiscono per scomparire, o per trasformarsi in favori. Ed è con questi mezzi che una politica che non ha nulla da dire al paese, non una prospettiva di sviluppo da indicare o seguire, si riduce a mera gestione, spesso clientelare, del consenso. Aggrappata a una nave raffazzonata, in un oceano in tempesta.

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