A giugno 2023, più di tre anni dopo l’inizio della pandemia, il global container freight index, una delle misure del costo del trasporto marittimo, è tornato ai livelli del 2019. Al picco, nell’estate del 2021, era quasi decuplicato. Anche l’indice dei colli di bottiglia calcolato dalla Federal Reserve Bank di New York è ormai da qualche mese sotto la media storica. Queste evoluzioni, insieme al calo dei prezzi dell’energia indicano che possiamo considerare chiusa la fase di disarticolazione della produzione e del commercio mondiali, iniziata con la pandemia e continuata nel 2021 e 2022 quando l’economia è ripartita.

Il fatto di essere tornati più o meno alla normalità non significa che non ci si debba interrogare sulle fragilità evidenziate dalla crisi. Fin dal 2020 è in corso un dibattito sull’autonomia strategica di economie che si sono scoperte dipendenti da fornitori esteri non sempre affidabili, sulla complessità e quindi sulla fragilità dell’economia globalizzata. Un discorso complesso, in cui la riflessione sulle catene del valore si intreccia con quella più generale su costi e benefici della globalizzazione. Non è sorprendente che sia difficile raggiungere conclusioni nette.

La minimizzazione dei costi

Coloro che sono a favore del reshoring, del rimpatriare parte dei processi produttivi in passato esternalizzati fino al parossismo, avanzano diversi argomenti. Il primo è quello per cui l’esternalizzazione dei processi produttivi ha progressivamente intaccato l’autonomia strategica di molti paesi avanzati, con risultati nefasti dal punto di vista economico e anche geopolitico. La lotta per l’egemonia tra le economie emergenti e quelle avanzate e i rischi per la salute pubblica del cambiamento climatico, rendono ineludibile una seria riflessione sulla ricostruzione di capacità di reazione rapida a shock energetici, sanitari o geopolitici senza dover dipendere dalle importazioni.

L’esperienza degli ultimi anni mostra che catene del valore eccessivamente lunghe minimizzano i costi, ma al prezzo di una grande fragilità. Basti considerare che nel primo trimestre del 2020, quando solo la Cina era andata in lockdown (in Europa il primo paese è stato l’Italia, il 9 marzo) il PIL è crollato quasi ovunque, principalmente a causa delle difficoltà di approvvigionamento di imprese e grossisti.

Secondo i partigiani del reshoring, l’enfasi quasi esclusiva sulla minimizzazione dei costi di produzione poteva essere giustificata in un contesto macroeconomico e geopolitico stabile (o almeno che sembrava tale). Se nei prossimi anni il mondo in cui vivremo assomiglierà a quello attuale, turbolento, varrà la pena provare a proteggersi accorciando le catene del valore, anche al prezzo di costi di produzione più alti.

Questa discussione è un’altra manifestazione della crisi del consenso che dominava in macroeconomia fino ai primi anni Duemila. Se si crede nella capacità dei mercati di assorbire gli shock senza aiuti esterni, trascurare la “resilienza” per concentrarsi sui costi di produzione è la strategia vincente. Nel momento in cui viene meno la fede nel mercato come unica istituzione necessaria per avere allocazioni ottimali, entrano in gioco altre considerazioni.

La terza ragione per accorciare le catene del valore è legata all’urgenza della transizione energetica. Con i costi di trasporto in caduta libera, sparpagliare il processo produttivo localizzandone ogni fase dove era più conveniente consentiva di risparmiare. Ma se si fossero considerati i costi ambientali, il calcolo forse sarebbe stato diverso.

Che sia a causa della pressione sociale, dell’azione pubblica o semplicemente della consapevolezza della catastrofe imminente, le imprese saranno necessariamente spinte a internalizzare parte dei costi ambientali di catene del valore lunghe. Rimpatriare parte dei processi produttivi, una volta correttamente considerati i costi ambientali, potrebbe in futuro essere la scelta ottimale.

I partigiani di un ripensamento del nostro modo di produrre, sottolineano la necessità di non limitarsi alla miope massimizzazione dei profitti, cercando piuttosto di adottare una prospettiva di lungo periodo, nella quale la resilienza e la sostenibilità sociale e ambientale siano appropriatamente considerate.

Il bambino e l’acqua sporca

Se c’è quasi unanimità sul fatto che per i beni essenziali per la salute pubblica e la sicurezza nazionale occorra recuperare autonomia strategica, sulle virtù del reshoring per beni non strategici le voci contrarie sono maggioritarie. Negli ultimi decenni le catene globali del valore sono state uno dei pilastri dell’espansione del commercio e della crescita economica nei paesi emergenti e in via di sviluppo.

Un rapporto recente della Banca mondiale stima che il reshoring da parte dei paesi ad alto reddito e della Cina nei prossimi dieci anni spingerebbe sotto la soglia di povertà 52 milioni di persone (soprattutto nell’Africa subsahariana). Il Fondo Monetario Internazionale, nell’edizione 2022 del suo World Economic Outlook, dopo aver confermato che durante la pandemia le catene del valore hanno contribuito ad esportare la crisi economica, nota che questi effetti di diffusione negativi sono diminuiti di intensità nelle successive ondate della pandemia; questo sembra indicare che le catene del valore siano state più capaci di adattarsi di quanto non si credesse all’inizio.

Insomma, coloro che si oppongono a un radicale accorciamento delle catene del valore raccomandano di non gettare il bambino, i benefici della globalizzazione, con l’acqua sporca di catene del valore eccessivamente fragili. Le imprese dovrebbero piuttosto aumentare la resilienza con la diversificazione delle fonti di approvvigionamento, con una migliore gestione delle scorte e via di seguito.

Per decenni sono stati i paesi più avanzati a spingere per la globalizzazione, mentre i paesi in via di sviluppo cercavano invano di proteggersi, per il giustificato timore di essere schiacciati; oggi succede il contrario: la discussione sul reshoring avviene nei paesi avanzati, mentre i paesi emergenti difendono con forza il sistema degli scambi globali. È difficile prevedere cosa succederà. Quel che è certo,: i processi produttivi non saranno più orientati alla sola minimizzazione dei costi di produzione, che se saranno più alti avranno un impatto su prezzi e inflazione.

Questo testo riprende una sezione di Oltre le banche centrali, in libreria il 25 agosto per Luiss University Press

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