La distinzione tra profitti e rendite spesso non è semplice, ci sono vaste zone d’ombra concettuali, anche dal punto di vista teorico, al punto che esiste anche la categoria delle “quasi rendite”.

Comunque, la rendita è definita come un guadagno frutto solo del possesso di un bene, senza un’azione imprenditoriale di cui sia in qualche modo il premio, come è il profitto d’impresa.  

Ma ne esiste una seconda categoria, socialmente non meno rilevante, ed è definita come un extra-profitto ottenuto a causa di insufficiente concorrenza (è il caso dei monopoli e degli oligopoli).

La seconda definizione è un concetto storicamente recente, nasce nell’accezione moderna con il padre dell’economia Adam Smith. Smith è anche il primo a caricare la rendita da insufficiente concorrenza di valori morali negativi, quando afferma che «se due o più imprenditori si trovano tra loro, anche nel tempo libero, cospireranno contro il bene comune» (cioè si accorderanno per ridurre la concorrenza).

Il maggior strumento moderno contro questo secondo tipo di rendite sono le autorità regolatorie indipendenti, che cercano di promuovere nei rispettivi settori la concorrenza. Anche sul loro ruolo ci sono scuole di pensiero diverse. Contro le rendite del primo tipo invece lo strumento dominante è quello fiscale.

Ma con l’avvento dell’attuale governo ogni dibattito su rendite, concorrenza e regolazione è sparito all’orizzonte, e sostituito a volte persino esplicitamente dal suo contrario. Cosa significa altrimenti «lasciar libere le imprese che vogliono lavorare»?

Ma i segnali sono onnipresenti, vediamone alcuni. Il ministero dell’industria che aggiunge al nome il termine “made in Italy”, a parte l’ossimoro del termine inglese, con adombra contenuti protezionistici rispetto alla concorrenza estera, spesso definita “sleale”?

Poi le origini anti globalizzazione di Fratelli d’Italia non possono essere occultate da un velo di europeismo (c’è il Pnrr per bacco…) e di atlantismo, causa guerra in Ucraina.

Anche la concezione di una “Europa delle nazioni” va nella stessa direzione. Meno concorrenza estera significa maggiori margini di rendita, come dimostra anche la martellante pubblicità sull’italianità dei prodotti. Le imprese sono ben consce dell’efficacia del messaggio, e se ne può dedurre un atteggiamento molto benevolo verso un governo che se ne fa addirittura una bandiera programmatica.

Ma la casistica è davvero ampia: si va dalla difesa ad oltranza dei balneari a quella dei tassisti.

Appalti

Poi ci sono da ricordare le battaglie per rendere più amichevole verso le imprese il codice degli appalti, e il successo nell’ottenere di non fare la gara per il ponte sullo stretto (e qui forse la Commissione europea dovrà chiudere un occhio, tante sono state le acrobazie fatte per ottenere quel risultato).

Ma esiste la “regina di tutte le rendite”, ed è quella immobiliare. Questo tipo di rendita è valutato a livello internazionale generare maggiori diseguaglianze che non lo squilibrio classico tra profitti e salari, ed è difficile da colpire, in quanto è una rendita apparentemente del primo tipo che abbiamo descritto, cioè che sembra legata unicamente al possesso di un bene, che aumenta di valore a causa di fattori esterni (la crescita urbana).

Qui il governo Draghi con la proposta di riforma del catasto aveva fatto un timido tentativo, subito bloccato dalle resistenze dei partiti, soprattutto delle destre ora al governo. Il problema è esacerbato in Italia dalla dominanza delle case in proprietà e dall’esenzione della prima casa, fattori che fanno sembrare che introdurre una tassa per tutti gli immobili debba creare dissensi molto diffusi.

Ma l’esenzione attuale maschera situazioni profondamente inique: sono esenti immobili di diversissimo valore e dimensione, e anche tra le residenze date in affitto, vi sono scompensi vistosi tra case vecchie in centri storici divenuti di gran pregio e case recenti ma collocate in periferie scarsamente appetibili. Squilibri fiscali analoghi sono riscontrabili anche nelle seconde case.

Scarsità

Tuttavia è innegabile che in questo tipo di rendita entri anche il fattore scarsità, cioè lo squilibrio strutturale che si crea tra domanda e offerta nei centri più dinamici, che vedrebbe in una maggiore concorrenza, cioè un aumento dell’offerta, un potente fattore di riduzione anche di queste rendite.

Favorire le rendite ha conseguenze assolutamente devastanti: in primo luogo determina diseguaglianze profondamente ingiuste, al di là degli squilibri storici tra salari e profitti denunciati dall’economista francese neomarxista Thomas Piketty.

Ma oltre agli effetti distributivi, ha effetti anche sul benessere collettivo (diminuisce il surplus e l’occupazione). Contraddice anche, delegittimandolo, il capitalismo stesso, che vede la meritocrazia tra le sue più solide, anche se a volte opinabili, narrazioni.

Infine, per citare Lenin, corrompe anche i lavoratori dei settori monopolistici, nella misura in cui i percettori di rendite tendono storicamente a “comperarsi” con parte di queste il supporto politico dei lavoratori stessi.

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