Se non è un record poco ci manca. Una quarantina di giorni a partire dal 5 agosto, nel pieno della pausa estiva, per metter mano alla rivoluzione del fisco. Niente paura, nessun ritardo, la scadenza sarà rispettata, ha garantito il viceministro Maurizio Leo in una recente intervista al quotidiano Il Messaggero. Il 20 settembre il pletorico supercomitato di 170 esperti nominato dallo stesso Leo (ne fanno parte anche cinque professionisti dello studio fondato dal viceministro) presenterà le proposte che “saranno la base dei decreti attuativi” della legge delega approvata in estate dal Parlamento.

Tutto bene, se non fosse che gran parte di questo immane lavoro rischia di restare sulla carta ancora a lungo. Il fatto è che il governo non può dare un taglio alle imposte, salvo ritocchi marginali, perché al momento, banalmente, non sa dove trovare i soldi per mantenere gli impegni presi con gli elettori, a cui ha promesso un fisco più leggero e amico del contribuente. Se ne riparla l’anno prossimo, forse. O magari entro la fine della legislatura. In questi ultimi mesi del 2023 si partirà dagli interventi che non “necessitano di coperture” ha spiegato Leo, tipo quelli che riguardano il contenzioso o le sanzioni.

Misure che peraltro, secondo molti esperti, sono a costo zero oggi, ma rischiano di provocare cospicui cali di gettito in futuro. Resta aperta una questione, una questione d’immagine, se vogliamo. Che fare per riempire di sostanza, almeno nel breve termine, l’infinita catena di annunci che nei mesi scorsi ha accompagnato ogni passaggio formale della grande riforma fiscale che la destra finalmente al governo ha voluto a tutti i costi intestarsi? È un problema di non facile soluzione, in effetti.  

A maggior ragione se il prossimo autunno ogni risorsa disponibile verrà assorbita da una manovra finanziaria per il 2024 che si annuncia più difficile che mai. Il governo, però, sembra aver trovato il modo di salvare quantomeno le apparenze. Il provvedimento bandiera della riforma fiscale, almeno in questa primissima fase, sarà la Global minimum tax, cioè l’imposta minima del 15 per cento sugli utili da applicare ai grandi gruppi internazionali, quelli con almeno 750 milioni di ricavi annui, attivi in Italia. “Sarà sicuramente una delle prime misure”, ha annunciato il viceministro Leo.

Parole che fanno eco alle parole d’ordine di Giorgia Meloni, che da sempre vorrebbe tassare “quelli che i soldi ce li hanno”, cioè i giganti multinazionali, per non mettere le mani nelle tasche degli italiani. Slogan a parte, però, la riforma fiscale c’entra poco o nulla con la Global minimum tax. Le nuove norme sulla tassazione delle multinazionali fanno parte di una direttiva europea, la 2523 del 2022, varata da Bruxelles nel dicembre dell’anno scorso, una direttiva che l’Italia, al pari degli altri Paesi dell’Unione, si è impegnata a recepire nel proprio ordinamento entro il 2023. Non per niente, la legge delega approvata dal Parlamento cita la Global minimum tax tra i principi ispiratori della riforma, un provvedimento la cui approvazione è data per scontata.

Nessun passo avanti, quindi. Le tasse sulle multinazionali vanno inasprite perché ce lo impone l’Europa e l’esecutivo non può fare altro che allinearsi. Del resto, anche l’Unione Europea non ha fatto altro che tradurre in norme di legge gli impegni ratificati in sede Ocse nel dicembre del 2021 da quasi tutti i Paesi del mondo (circa 130), dopo che anche il G20 aveva trovato un’intesa sulla materia, un’intesa al ribasso perché gli Stati Uniti hanno a lungo ostacolato ogni accordo nel tentativo di ridurre il conto da pagare per le multinazionali a stelle e strisce. L’obiettivo comune è quello di ostacolare il trasferimento dei profitti delle grandi imprese internazionali verso gli Stati che garantiscono un’imposte societarie basse o nulle.

Secondo gli studi più accreditati, grazie alle nuove regole l’Unione potrebbe aumentare di una quarantina di miliardi il suo gettito fiscale annuale e per l’Italia le entrate supplementari ammonterebbero a circa 2,7 miliardi. A fare le spese del provvedimento sarebbero innanzitutto i big dell’economia digitale, colossi come Meta (Facebook), Alphabet (Google), Amazon e Airbnb, che per via della natura puramente virtuale della loro attività, incassano gran parte dei ricavi in Paesi diversi da quelli in cui l’utente finale acquista il servizio. In realtà fin dal 2019 l’Italia ha introdotto un’imposta supplementare, la cosiddetta web tax, che va a tassare non gli utili ma i ricavi dei servizi digitali. In tre anni però questa nuova misura ha fruttato meno di un miliardo di euro, molto meno rispetto alle attese. Grazie alla Global minimum tax l’incasso potrebbe aumentare di m molto, almeno in teoria, perché il meccanismo di applicazione, tra eccezioni e rinvii, rischgia di offrire numerose scappatoie alle imprese.

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