«Eh è una vita che faccio pulizie, nelle case tantissimo, ora sono nei condomini con un contratto di 12 ore a settimana». Rosa è romana, ha 53 anni e vive da vent’anni in un un posto occupato a Roma, l’ex caserma al Porto Fluviale che diventerà oggetto di un progetto di riqualificazione e stabilizzazione per gli abitanti attuali. «Che ti devo dire sono una madre che sta crescendo una figlia da sola con tutte le difficoltà del caso».

Rosa prende 350 euro al mese con qualche lavoretto in più riesce ad arrivare ad avere un bilancio di 450/500 euro. «Avrei potuto prendere il reddito di cittadinanza, ma visto che ho una figlia più grande con due bambini piccoli, ancora nel mio nucleo familiare, ho preferito che lo prendesse lei».

Come si mantiene una figlia con 500 euro al mese? «Ci sono alcune rinunce, la bambina non fa sport, vorrebbe tanto fare calcio ma non ce lo possiamo permettere. Ora forse abbiamo trovato una scuola di calcio popolare a San Lorenzo anche se è per maschi pace, andremo lo stesso». E le gite? «Mi avevano chiesto di mandarla per due giorni al campo scuola, chiedevano 300 euro, come faccio. Se pago il campo scuola non posso farla magnà».

L’occupazione femminile

Quando Giorgia Meloni spiega che bisogna occupare più donne in Italia invece di aspirare ad avere più lavoratori migranti è come se pestasse un enorme formicaio che si chiama disparità di genere. E che mette l’Italia agli ultimi posti europei e le donne italiane confinate in lavori precari senza welfare.

«L’Italia è penultima dopo la Grecia per il tasso di occupazione femminile, siamo al 52,1 per cento, in leggera ripresa dopo il Covid, ma davanti a noi ci sono paesi molto più poveri, Cipro, Slovacchia, Bulgaria, Romania, Ungheria. La media europea è oltre il 65 per cento» dice la professoressa Alessandra Casarico che insegna economia pubblica alla Bocconi. «Perché? È la domanda da un milione di dollari, non c’è un’unica causa si va dall’assenza di servizi e politiche familiari, dalla condivisione del lavoro di cura all’interno delle famiglie, ad imprese che considerano la maternità come un costo e una cultura che è ancora fortemente improntata sull’idea che il posto della donna sia a casa piuttosto che nel mercato del lavoro». Naturalmente in Italia ci sono due paesi. «Nel nord Italia i livelli di occupazione femminile non sono tanto lontani da europei, siamo al 60 per cento, mentre al sud ci sono aree dove l’occupazione è al 30 per cento».

Il tempo della cura

«Se si parla di lavoro femminile e di gender gap bisogna ricordare che esiste una segregazione occupazionale sia verticale che orizzontale. La segregazione verticale significa che le donne ai posti decisionali nel mondo sono sotto il 10 per cento. Quindi in pratica metà della popolazione mondiale non decide. La segregazione orizzontale fa sì che le donne siano più impiegate in certi settori che sono più poveri e precari». Emanuela Mastropietro è un’esperta di politiche del lavoro e politiche di genere che due anni fa ha collaborato alla stesura di una legge presentata da Tommaso Nannicini e Valeria Fedeli “Interventi per l’equità di genere nel tempo dedicato al lavoro e alla cura dei figli”.

«Il tempo è il fattore fondamentale, le donne lo impiegano soprattutto per la famiglia, figli e genitori – spiega Mastropietro – Le donne italiane si fanno carico del 74 per cento del lavoro di cura, svolgono 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno mentre gli uomini soltanto 1 ora e 48 minuti».

E in effetti anche la storia lavorativa di Rosa è stata interrotta da un problema familiare. «Se ho mai avuto un lavoro a tempo pieno? Stiamo parlando di tantissimi anni fa, quasi venti. Lavoravo in una mensa ospedaliera, lo stipendio non era altissimo ma buono, poi mia madre si è ammalata di tumore e non c’era nessun altro che se ne potesse prendere cura quindi ho lasciato il lavoro». Non avevi fratelli o sorelle con cui condividere? «No, lascia perdere poi se c’è bisogno io sono la prima che corre ad aiutare».

Lavori poveri

«Io ho seguito tante vertenze di donne che lavoravano nelle mense o nella ristorazione – racconta Stefania Ruggeri Usb provincia di Roma – e quando fuoriescono dal mercato del lavoro alla fine di una vertenza, magari dicendo vabbè tanto c’è mio marito che lavora, io non ho mai capito se è un arretramento agli anni ‘50 o una presa di consapevolezza».

Quello che può dire è che i settori che segue come sindacalista, quelli delle mense e delle pulizie, sono in prevalenza composti da donne e sono considerati lavoro povero. «Sono tutti lavori in appalto – continua Ruggeri – quindi magari hanno il tempo indeterminato ma ogni appalto dura tre al massimo quattro anni. Poi arriva un’altra azienda che con la clausola sociale che c’è nel contratto nazionale collettivo prevede che tutti i lavoratori devono essere riassunti con la stessa anzianità e le stesse ore. Purtroppo questo non succede mai automaticamente, anche perché gli appalti sono sempre al ribasso quindi le aziende abbassano le ore e mettono in questione l’anzianità».

Senza contare che è un settore dove il ricorso al part time è massiccio. «La legge prevede che part time sia una richiesta del lavoratore – continua la sindacalista dell’Usb – invece sono dei part time obbligatori. Nelle mense solo i cuochi lavorano 40 ore settimanale, il resto sono sui 15, 20 ore. Senza contare che sia nelle mense che nel pulimento ci sono dei part-time ciclici verticali. Ad esempio lavorano durante l'apertura della scuola, quando le scuole sono chiuse rimangono in sospensione contrattuale. Quindi loro per due o tre mesi non prendono stipendio e non maturano i contributi».

Secondo i dati Istat dell’ultimo trimestre del 2022 i contatti a tempo parziale (tra i 15 e gli 89 anni) erano 4,189 milioni di cui 3,125 milioni sono donne. Le paghe nel settore di mense e pulizie va dal sesto livello, addetto/a alle mense, 7,89 euro l’ora lordi al quarto livello 8,76 euro l’ora lordi. «Ma il vero problema è che donne in Italia fungono da welfare universale – riflette ancora Stefania Ruggeri – ho seguito la vertenza delle mense all'aeroporto di Fiumicino, con la fine di Alitalia hanno chiuso tutte le mense, l’ultima ha portato al licenziamento collettivo di 58 persone, 40 erano donne». Le lavoratrici, racconta, hanno deciso di prendersi «due soldi» di buona uscita «perché alla fine hanno tutti figli, o genitori, a cui stare dietro. Questo è il welfare universale della donna e più stanno a casa più tolgono il welfare pubblico».

© Riproduzione riservata