I porti italiani, da cui passa quasi il 40 per cento dell’interscambio commerciale del paese e a cui è dedicata una scheda del Recovery plan da 3,7 miliardi di investimenti, sono a una svolta: in una partita giocata lontano dai riflettori, nei prossimi mesi il governo, che finora ha dormito, dovrà fare scelte decisive sul loro modello di gestione. Il sistema di amministrazione demaniale affidato a 16 autorità portuali esprime un’economia stagnante, incapace di tornare ai livelli del 2008, al contrario di quasi tutti gli altri paesi marittimi del continente. Ma il passaggio a un modello privatistico non è, come da più parti si lascia intendere, l’unica strada.

Nel gennaio 2019, la Fg Competition della Commissione europea, l’antitrust di Bruxelles, ha «chiesto all’Italia di abolire le esenzioni dall’imposta sulle società di cui beneficiano i porti italiani, allo scopo di allineare il regime fiscale nazionale alle norme Ue in materia di aiuti di stato». Si chiedeva cioè di assoggettare all’Ires, l’imposta sul reddito delle società, anche i ricavi delle autorità portuali, oggi esentate in quanto enti pubblici non economici.

Difendere l’esistente

La reazione del governo Conte I fu veemente. A guidare l’opposizione a Margrethe Vestager, simbolo dell’Europa matrigna intenzionata a penalizzare i porti italiani a favore di quelli nordeuropei, fu la Lega, con l’allora viceministro alle Infrastrutture Edoardo Rixi a rilanciare un pallino del Carroccio: la trasformazione delle autorità portuali in Spa controllate dagli enti locali, con assorbimento del relativo patrimonio demaniale (circa tre miliardi di euro) e dell’Iva sulle importazioni (circa quattro miliardi l’anno) riscossa per conto dello Stato.

In prima linea, con una posizione però di difesa dell’esistente, anche la deputata renziana Raffaella Paita, presidente della Commissione trasporti della Camera (e moglie di Luigi Merlo, ex presidente del porto di Genova divenuto manager del gruppo Msc, colosso svizzero dell’armamento e primo attore della logistica portuale italiana). E poi c’è Assoporti, l’associazione delle autorità portuali, che nei giorni scorsi ha depositato il ricorso contro quella che a dicembre scorso è diventata una decisione coercitiva della Commissione: o l’Italia adotta «le misure necessarie ad abolire l’esenzione, in modo da garantire che dal 2022 a tutti i porti si applichino le stesse norme fiscali che valgono per le altre imprese», o scatta la procedura di infrazione.

Gli enti hanno potuto impugnare perché direttamente interessati. Ma, malgrado i proclami, il vero destinatario, il governo, ha fatto spallucce tanto con Danilo Toninelli quanto con Paola De Micheli, lasciando scadere il termine d’impugnazione del 16 febbraio scorso. E nemmeno ha provato a risolvere negozialmente la questione con la Commissione, come hanno fatto tutti i paesi europei senza snaturare i propri assetti istituzionali, anche quelli gelosi, vedi Francia o Spagna, dello status pubblico dei propri porti e della loro gestione. Col risultato che, se il Tribunale dell’Ue, come sembra probabile, non accoglierà il ricorso si creeranno le condizioni per uno stravolgimento imposto dall’alto, giocoforza repentino e pertanto probabilmente affidato a qualche provvedimento d’urgenza, con esiti imprevedibili. O, forse, da qualcuno previsti e auspicati.

Sia o meno il pretesto per un frettoloso orientamento al modello Spa, come sembrano auspicare in caso di sconfitta molti presidenti di autorità portuale, la difesa granitica dell’assetto vigente si impernia sulla natura pubblica di tali enti. Ma non tiene conto che in altri paesi le autorità portuali sono rimaste pubbliche, pur soddisfacendo le pretese fiscali della Commissione. Per la Dg Competition del resto il tema non è giuridico ma economico.

Problema di concorrenza

I porti sono infrastrutture limitate nel numero, irriproducibili e soprattutto in competizione fra loro a livello continentale. Per servire un qualunque mercato europeo, la distanza fisica di un porto non è più importante della bontà dei suoi collegamenti e del costo di installarvi un terminal o scalarne i moli. Se quindi l’ente che gestisce le banchine, affittandole, vendendole o dandole in concessione, non paga tasse sui propri introiti, può applicare tariffe inferiori, sottraendo ad altri porti gli investitori che a parità di condizioni farebbero scelte differenti. In sostanza, cioè, Bruxelles imputa all’Italia una concorrenza sleale. E i numeri parrebbero darle ragione.

Italia e Spagna sono mercati simili. Nel 2018 i porti italiani movimentarono 491 milioni di tonnellate di merce e 64 milioni di passeggeri, quelli spagnoli 563 milioni di tonnellate e 46 milioni di passeggeri. I primi fra canoni e tasse portuali (le entrate delle autorità portuali che Bruxelles vorrebbe tassate) incassarono 553 milioni di euro, i secondi 1.041 milioni di euro (e 117 milioni per servizi vari). Ma le autorità portuali italiane ricevettero trasferimenti da stato, regioni e altri enti per 345 milioni a fronte della piena autonomia di quelle spagnole.

Il canone di locazione medio in Spagna era poco superiore ai 7 euro al metro quadrato l’anno, a Genova (il maggior porto nazionale, non esiste un dato nazionale) non si arrivava a 4 euro. Le infrastrutture portuali italiane, insomma, costano a chi le sfrutta economicamente (armatori, concessionari dei terminal, imprese portuali, spedizionieri, cantieri navali, ecc.) molto meno che in un mercato concorrente e simile per volumi quale quello spagnolo. E rendono molto meno allo stato, che paga la differenza con fiscalità generale.

Un sistema incompiuto

Per le nostre autorità portuali tasse e canoni, totalmente trattenuti per il proprio funzionamento, sono contributi incassati per conto dello stato (in quanto tali non tassabili), esclusi dalla loro potestà tariffaria perché stabiliti per legge. Per Bruxelles invece sono i ricavi delle autorità portuali, a fronte dei servizi offerti, fra cui rientrano gli investimenti (infrastrutturazione, manutenzione, dragaggi, ecc.) invece finanziati in larga misura dallo stato.

Per questo in un modello giuridicamente molto simile al nostro come quello spagnolo (che peraltro in Europa registra la maggiore crescita da vent’anni) le tariffe sono il doppio: lo stato investe attraverso le autorità portuali ma, affidando loro ampi margini negoziali su canoni e tasse, ribalta i costi sui privati utilizzatori dei porti. Un nuovo terminal si fa o si modernizza se c’è un interesse del mercato a pagare l’incremento di canoni e tasse necessario a coprire il costo. In Italia, invece, il fatto che non siano le entrate delle autorità ma il finanziamento statale a pagare gran parte degli investimenti fa sì che essi vengano decisi secondo logiche non di mercato ma politico-territoriali e lobbistiche. La politica oggi controlla queste preziose stazioni appaltanti attraverso la nomina del vertice affidata al ministro sentita la regione. Per questo è spaventata dall’idea di inquadrare, come fa la Commissione, l’attività dei porti come economica in senso comunitario: le scelte di investimento sarebbe assoggettata alla disciplina europea sugli aiuti di stato, rendendone impossibile la maggior parte.

Malgrado il sistema italiano comporti una ridondanza di infrastrutture e spesso concorrenza selvaggia nel raggio di pochi chilometri, l’industria marittima non mostra grande interesse al cambiamento. Anche perché, da quando nel 1994 si passò al sistema concessorio, il ministero delle Infrastrutture non ha mai emanato il decreto attuativo di regolazione delle concessioni. Assegnazioni, rinnovi, subentri e revoche sono così disciplinate con norme antecedenti (il Codice della navigazione del 1942), tarate su un sistema pubblicistico e su un mondo cui le regole europee sulla concorrenza erano estranee. I canoni restano infatti, pur aggiornati all’inflazione, quelli fissati da una legge del 1989, calcolati su una valutazione patrimoniale dell’epoca e non in funzione dei traffici e del lucro realizzabile sulle banchine.

L’assist di Bruxelles

Gli scali italiani risultano poco efficienti in un’ottica sistemica di paese: porti e terminal piccoli su scala europea che però, oltre a garantire ai partiti un solido presidio dei campanili, rendono molto ai privati e poco allo stato. Ecco perché la politica più vicina alle lobby e tutte le associazioni di categoria da due anni propugnano la difesa dell’esistente, spingendo, nella biennale inerzia di due governi, affinché l’alternativa sia un sistema di spa pubbliche che, in una gattopardesca rivoluzione, non farebbe in realtà che esacerbare i difetti attuali.

Draghi ed Enrico Giovannini sono arrivati il giorno della scadenza dei termini di impugnazione, ma ci sono ancora 8 mesi per sconfessare il ricorso delle autorità portuali e imbastire i piccoli ritocchi che, puntando sul mercato invece che sui mercanti, come avvenuto in Spagna (ma non solo), permetterebbero allo stato di mantenere il controllo dei propri porti, spostandone a favore dell’interesse generale la capacità di creare gettito e lavoro.

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