Più di 10 anni fa, Enrico Bondi fu nominato commissario per gestire Ilva in amministrazione straordinaria. Da allora l’azienda vive un declino inesorabile. La responsabilità viene attribuita agli azionisti privati: prima la famiglia Riva, che l’ha acquistata con la privatizzazione, ma ne ha causato il dissesto violando norme sulla sicurezza e provocando danni all’ambiente e alla salute; poi AcelorMittal subentrata all’amministrazione straordinaria, senza dar seguito agli impegni assunti all’ingresso.

Le responsabilità dei privati sono innegabili ma ci si dovrebbe rendere conto di concause che sono anche lo specchio delle ragioni del declino economico del paese, unico nell’area Ocse con Pil pro capite a potere di acquisto costante fermo al livello di 20 anni fa.

Ilva è emblematica della nostra incapacità di affrontare il declino economico di un settore o di un’azienda, che sia causato da innovazione tecnologica, da cambiamenti nella domanda o delle condizioni del mercato; e di spostare le risorse da quel settore, a quelli a maggior crescita, o dove abbiamo maggiori vantaggi comparati. L’acciaieria di Taranto ha svolto un ruolo strategico nel dopoguerra, dotando la nostra industria di punta (auto, macchinari, cantieristica, elettrodomestici, costruzioni) di una materia prima essenziale. Questa spiega sia la sua gigantesca dimensione, sia la localizzazione vicino a un grande porto dove far affluire i minerali di cui l’Italia è priva.

Da allora, però, non c’è stata alcuna rivoluzione tecnologica nella produzione dell’acciaio, venendo meno una barriera all’entrata dei paesi emergenti (Cina, Messico, Russia, Corea, India, Turchia) con un vantaggio in termini di costi del lavoro e dell’energia. Così si è creato un eccesso di capacità produttiva che ha messo in crisi la siderurgia nei paesi industrializzati e ridotto l’importanza strategica di Ilva. L’avvento della digitalizzazione e il cambiamento nei consumi e nell’uso del tempo libero hanno fatto il resto: l’acciaio è una frazione sempre più piccola dei beni e servizi che consumiamo. Ipotizzare che Ilva possa mantenere capacità produttiva e occupazione di trent’anni fa è un sogno irreale. Eppure, siamo ancora secondi in Europa (dopo la Germania) e noni al mondo.

Senza strategia

Ilva è anche un esempio di come l’urgenza della transizione ambientale si confronti con una totale mancanza di strategia e di mezzi. Costi e benfici delle alternative possibili per Ilva sono noti. L’acciaio può essere prodotto dai rottami o dal minerale di ferro. Con i rottami si usano i forni elettrici (ad arco), che eliminano le emissioni nocive degli altoforni (un quarto delle emissioni industriali). Ma i rottami sono disponibili in quantità insufficiente per la domanda di acciaio, e bisogna trasportarli a Taranto da lontano; i forni ad arco utilizzano poi tanta elettricità, che produce emissioni nocive se non viene da rinnovabili, e richiedono molta meno mano d’opera. E’ la strada imboccata dalla maggioranza degli impianti siderurgici privati italiani, ma ben più piccoli e localizzati in prevalenza al Nord.

Se si parte dal minerale di ferro, e si vogliono eliminare gli altoforni, alimentati a carbone, si usa il Direct Reduced Iron (in italiano, peridotto): pellet di ferro ottenuti trattando il minerale con un misto di idrogeno e monossido di carbonio in forni alimentati a gas. Il peridotto è poi fuso in forni elettrici ad arco per ottenere acciaio. È la strategia che verrà maggiormente utilizzata negli altri paesi europei per ridurre le emissioni, con progetti per oltre 40 milioni di tonnellate, quasi il doppio dell’intera produzione italiana. Era anche il progetto dei consulenti del Commissario Bondi nel 2014, che avrebbe mantenuto l’utilizzo del minerale e sfruttato la rete dei gasdotti che attraversano il nostro paese per la produzione del peridotto a Taranto. Il suo uso elimina fino a metà delle emissioni rispetto agli altiforni, ma non le elimina, richiede comunque l’estrazione dal minerale, tanta elettricità per i forni elettrici, meno mano d’opera e soprattutto aumenta ancora di più la dipendenza italiana dalle forniture di gas, con i rischi geopolitici che abbiamo imparato a conoscere.

C’è infine la soluzione dell’acciaio verde con l’intero processo, dal peridotto ai forni ad arco, alimentato con idrogeno prodotto da rinnovabili. Due esempi sono le svedesi H2 Green Steel e Hybrit Steel Project, che però hanno un costo di produzione dell’acciaio più alto del 30 per cento, pur essendo localizzate vicino a centrali idroelettriche e parchi eolici; e richiedono poca mano d’opera. Per sperare di diventare in futuro un progetto realistico, l’acciaio verde implica dunque che la sua produzione sia localizzata vicino al fonti abbondanti di energia rinnovabile, e il peridotto eventualmente trasportato nei vecchi siti siderurgici pensati per gli altiforni, come Taranto. Costi e benefici delle alternative per l’Ilva sono dunque chiare, e da tempo. Manca, cronicamente, la capacità dei nostri governi di avere una visione strategica e saper decidere.

Bilancio pubblico per consenso

Questo porta ad altri due concause del nostro declino, perfettamente esemplificate da Ilva: il ruolo dello Stato nell’economia e il mercato dei capitali asfittico. Ilva a Taranto era parte di un disegno strategico dello Stato per l’industrializzazione del paese che però nel tempo non si è adeguato all’evoluzione economica, nell’illusione di evitare i costi sociali che le ristrutturazioni, inevitabili per le aziende in declino come Ilva. Invece di farsene carico con un welfare efficace, i Governi hanno preferito usare il bilancio pubblico per il consenso (pensioni insostenibili, bonus, spese fiscali) e mantenere un enorme capitale inutilmente immobilizzato in partecipazioni, invece di liberare le tante risorse che la più strategica transizione ambientale richiede: si stima che un impianto con peridotto da 2 milioni di tonnellate di acciaio, un quarto di Taranto, costi circa 2 miliardi; e l’H2 Green Steel ha richiesto, per ora, 6,5 miliardi. Sono risorse che il privato da solo non può fornire perché l’acciaio a minor impatto ambientale è anti-economico, nonostante i dazi che l’Europa ha deciso di imporre sulle importazioni a basso costo. Risorse che i Governi nel resto d’Europa forniranno sempre di più.

AcerlorMittal sarà stata pure inadempiente, ma avendo visto l’accelerazione in Europa nella transizione ambientale e i costi che questa avrebbe comportato, ha capito che lo Stato Italiano non aveva i soldi per sussidiarla e, dopo aver investito 1,8 miliardi, cerca pretesti per uscirne limitando i danni. Esattamente come in UK, dove ha chiuso gli ultimi due altoforni della maggiore acciaieria, passando ai forni elettrici e tagliando 2.800 degli 8.000 dipendenti, tra grande proteste come da noi. Sarà deprecabile ma è la realtà dei fatti: se lo Stato non sussidia, nessuno si accolla i costi privati dell’acciaio verde quando i benefici sono sociali.

Il futuro dell’acciaio sostenibile, richiede dunque tanti capitali, anche privati: sarebbe inefficiente pensare che la transizione ambientale sia fatta solo alle spalle delle finanze pubbliche, ammesso che ci sia una disponibilità che lo Stato Italiano non ha. Da noi poi prevale la malcelata ostilità nei confronti dei capitali esteri accusati di opportunismo, come le recenti polemiche per AcelorMittal e tanti altri casi rammentano. Giusto o pretestuoso che sia, dove sono i capitali italiani? Le nostre imprese hanno oggi un capitale di rischio complessivo di 2.300 miliardi, ma meno di 300 raccolti in Borsa, dove il principale azionista è ormai lo Stato. Il rimanente, per l’80 per cento viene direttamente o indirettamente dal risparmio delle famiglie. Il resto è debito. Dunque, un capitalismo privato, chiuso al mercato, e a controllo familiare, è necessariamente sottodimensionato e carente di capitali.

Ma come Ilva insegna, senza una strategia, senza adeguati capitali privati italiani, osteggiando quelli esteri, e senza il sostegno finanziario delle Stato, la strada per il declino è assicurata.

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