La settimana appena conclusa ci ha portato quattro notizie sul fronte dell’inflazione. Anzi, due notizie e due non notizie. Cominciamo dalle ultime. Non è più una notizia che le banche centrali proseguono nella loro strategia di restrizione monetaria.

Sia la Fed che la Bce hanno aumentato i tassi di un quarto di punto, e i due presidenti, Powell e Lagarde, non si sbilanciano su cosa accadrà in settembre. Quello che è sicuro è che, dopo il nono rialzo consecutivo, per l’eurozona il tasso è ai massimi dal 2001, quando la Bce cercava con tassi di interesse elevati di sostenere il valore della neonata valuta unica.

La seconda non-notizia è che l’inflazione continua a calare più in fretta del previsto. In attesa dei dati per l’eurozona, che usciranno lunedì, venerdì sono usciti quelli di Francia e Germania, ai minimi dall’invasione dell’Ucraina, e quelli della Spagna, invece leggermente più alti del previsto.

La restrizione, quindi, continua mentre l’inflazione scende; questo perché, è il messaggio che le banche centrali non si stancano di ribadire, l’inflazione è stata “troppo alta troppo a lungo”, e il rischio è che finisca per cronicizzarsi influenzando aspettative e negoziazioni salariali.

Nessuna spirale prezzi-salari

Il Diario europeo ha ribadito più di una volta che questo argomento è estremamente debole e che non si osserva, purtroppo, nessuna rincorsa salariale. Lo ha certificato ancora una volta, solo un paio di settimane fa, l’Ocse che, nel suo Employment Outlook del 2023 ha dedicato un capitolo al calo generalizzato dei salari reali (sintomo del fatto che i salari nominali sono cresciuti meno dei prezzi).

Anche le aspettative rimangono sotto controllo. Dopo le due non-notizie, infatti, la prima notizia della settimana scorsa sono i risultati dell’inchiesta trimestrale condotta dalla Bce sulle aspettative degli esperti del settore (Survey of Professional Forecasters).

Secondo l’inchiesta pubblicata venerdì, gli esperti si aspettano un ritorno dell’inflazione al 2 per cento già nel 2024 (e al 3 per cento nell’ultimo trimestre del 2023). La Bce dal canto suo continua a ritenere che al 2 per cento non si arriverà prima del 2025. Per questo, anche tra chi in passato è stato a favore della svolta restrittiva della Bce, si moltiplicano le voci di coloro che chiedono una pausa nei rialzi.

Non è merito della Bce

Ikon Images via AP

I falchi invece si basano proprio sul calo dell’inflazione per giustificare i rialzi passati e per sostenere ulteriori rialzi in autunno. La restrizione funziona, è l’argomento, e bisogna continuare fin quando l’inflazione non sarà tornata all’obiettivo del 2 per cento.

L’argomento è purtroppo fallace. La letteratura empirica ha lungamente studiato l’impatto delle decisioni delle banche centrali sull’economia. Questo avviene principalmente attraverso il cosiddetto canale del credito: l’aumento dei tassi di interesse della banca centrale si trasmette ai tassi bancari praticati a imprese e famiglie per i progetti di investimento e i mutui.

Il maggiore costo del capitale implica minore spesa e un raffreddamento dell’economia. Questo processo non è immediato. Se è vero che i tassi bancari reagiscono abbastanza in fretta alle decisioni della banca centrale (soprattutto al rialzo), la spesa è molto più vischiosa. L’investimento, ad esempio, è un processo che prende tempo, quasi sempre anni.

È improbabile che le imprese abbandonino un progetto già avviato solo perché il costo del denaro è aumentato. Quindi l’aumento dei tassi si trasmette con un certo ritardo solo man mano che le imprese concludono i progetti di investimento in corso e decidono se intraprenderne di nuovi. Lo stesso può dirsi per l’altro canale, quello dei tassi di cambio.

L’aumento del tasso d’interesse provoca un apprezzamento del tasso di cambio e per quella via un deterioramento dei saldi commerciali, che raffredda l’economia. Anche in questo caso, il processo non è immediato, perché ci sono contratti in corso da onorare, abitudini di spesa da modificare e via di seguito.

Per tutte queste ragioni i ritardi di trasmissione della politica monetaria si quantificano in semestri, quando non in anni. La letteratura è abbondante e il consenso che emerge è che in media, perché si inizino a vedere gli effetti di una variazione dei tassi sull’economia reale, devono passare 12-18 mesi; e perché la trasmissione sia completa ci si attesta sui due anni e mezzo.

I ritardi sono particolarmente lunghi per i paesi in cui i sistemi finanziari sono più sviluppati, e in cui è quindi più difficile per la banca centrale influenzare la creazione di credito da parte del settore bancario. Questo vuol dire che l’impatto della stretta creditizia iniziata nella primavera-estate del 2022 inizia a sentirsi ora, e che non sono le banche centrali che hanno provocato il calo dell’inflazione.

Questo ci porta all’ultima notizia della settimana, anche questa un’inchiesta. I risultati dell’ultima inchiesta trimestrale sui crediti bancari condotta dalla Bce mostrano (per il secondo trimestre consecutivo) un brusco calo della domanda da parte delle imprese (che attendendo un rallentamento dell’economia non sono disposte a prendere a prestito a tassi che cominciano a farsi proibitivi. Anche per famiglie e consumatori si assiste ad una contrazione del credito.

Insomma, mentre l’inflazione vive di vita propria, influenzata solo marginalmente dalle scelte delle banche centrali, queste ci stanno facendo entrare in una fase di rallentamento economico di cui si moltiplicano i segnali. In Germania l’indice Ifo della fiducia delle imprese è ai minimi dall’autunno scorso, e l’economia stagna dopo due trimestri di leggera contrazione.

Da noi le cose non vanno molto meglio, anche se la recessione per il momento non è all’ordine del giorno. Il bollettino Congiuntura Flash pubblicato da Confindustria ieri mostra un rallentamento dell’economia italiana dovuto principalmente alla debolezza di produzione industriale e investimenti, con consumi incerti ed export in calo. Solo i servizi (in particolare il turismo) tengono in piedi la nostra economia.

Oltre le banche centrali

Cosa ci dice questo quadro, oltre all’ovvietà che le banche centrali persistono in una strategia inutile e dannosa? In primo luogo, che nei prossimi mesi occorrerà attuare delle misure per attenuare l’impatto della restrizione monetaria, che inizierà a dispiegarsi pienamente e colpirà, come al solito le categorie più deboli. In secondo luogo, che deve terminare l’era della delega alla politica monetaria della soluzione di tutti i nostri problemi.

Da almeno il 2010, quando iniziò la crisi del debito sovrano, la politica monetaria è stata l’unico attore in scena, nel bene e nel male. È ora di ripensare il policy mix, l’attribuzione ai diversi attori della politica economica di strumenti e obiettivi. Ma su questo occorrerà tornare in un futuro Diario europeo.

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