La manovra di bilancio arriva nel pieno di una nuova crisi che aumenta l’incertezza, che probabilmente farà crescere i tassi, forse anche i prezzi, e frenerà ulteriormente il Pil (ci saranno ancora meno risorse). Le previsioni su cui si basa la manovra, già di per sé ottimistiche, risultano superate.

Naturalmente, il governo non poteva riscrivere la manovra in pochi giorni. Ma il punto è che l’impostazione era sbagliata già prima e a maggior ragione lo è adesso. Il grosso delle risorse viene destinato alla riduzione delle tasse, finanziata oggi in deficit e in parte con tagli alla spesa, domani con nuove privatizzazioni. In questo, potremmo definire la manovra (moderatamente) neo-liberale. Con venature populiste: alla crisi sociale il Governo risponde mettendo direttamente soldi nelle tasche dei lavoratori, senza intermediazioni. Dei 24 miliardi, oltre la metà sono per la decontribuzione (10 miliardi) e per il taglio del secondo scalone Irpef (3,5 miliardi).

Per tutto il resto rimane poco. Come per il potenziamento della pubblica amministrazione e del welfare: qui ci si limita agli aumenti contrattuali per il pubblico impiego, mentre con la spending review si annunciano tagli. Si pensi che i fondi destinati alla sanità, nonostante quel che sbandiera il Governo (un aumento di 3 miliardi), diminuiscono in rapporto al Pil – che è quel che conta per misurare l’effettivo impegno – segnando così un allontanamento dagli standard europei e dai reali bisogni dei cittadini.

Spiccano poi alcune contraddizioni. 180 milioni di euro sono per garantire gli asili nido gratis a chi ha almeno due figli. Il problema è che poi devono esserci, gli asili. In alcune zone del Sud la disponibilità di posti è inchiodata al 10%, in altrove al Nord è al 40%. A beneficiare della misura potranno essere le famiglie settentrionali, molto più di quelle meridionali: una palese ingiustizia. Non sarebbe stato meglio investire prima negli asili nido? Ma quelli sono interventi di struttura, previsti peraltro anche nel Pnrr ormai claudicante; molto più difficili di un semplice bonus.

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E perché d’altronde il Governo ha scelto di destinare così tanto alla decontribuzione? Di fronte all’inflazione che si mangia i salari reali, vi era un’altra possibilità: favorire i rinnovi contrattuali e introdurre il salario minimo. Ma quella è una scelta che poteva pesare sulle spalle delle imprese, specie quelle meno produttive (che però così sarebbero state spinte a innovare e modernizzarsi). Meloni ha preferito invece affossare il salario minimo, per poi caricare sull’intera collettività un qualche ristoro per le fasce a basso reddito. In questo modo il sistema delle imprese non viene stimolato, anzi, mentre tutto ricade sulle casse pubbliche.

È una soluzione che, nell’immediato, può andare bene a molti, e infatti è stata praticata a lungo da governi di ogni colore. Ma in prospettiva non risolve i problemi dell’Italia, anzi li aggrava, perché dà al sistema produttivo gli incentivi sbagliati. E perché toglie risorse a quello che realmente serve, al nostro Paese: il potenziamento dei servizi, delle infrastrutture, dell’amministrazione.

Sono queste le aree su cui dovremmo puntare, specie in una situazione di grande incertezza, perché sono fondamentali per la tenuta sociale e per la crescita. Il Governo ha scelto invece una strada, opposta e facile, che è ormai fuori dalla storia. È una strada già sperimentata in passato, che si è rivelata fallimentare allora e che ancora di più rischia di esserlo oggi, nelle nuove condizioni.

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