Nell’agenda di Maurizio Landini, Annamaria Furlan e Pierpaolo Bombardieri la giornata di mercoledì 10 febbraio, è cerchiata in rosso ma tenuta libera. I tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil aspettano la convocazione di Mario Draghi a Montecitorio con un’urgenza su tutte: essere rassicurati sul blocco dei licenziamenti che scade il 31 marzo. I sindacati vogliono la proroga e sono convinti che l'avranno.

Landini è stato chiaro nella trasmissione domenicale di Lucia Annunziata, ricordando che Draghi, quando ha ricevuto l’incarico di formare il governo, ha subito detto di voler incontrare le parti sociali subito dopo i partiti. «Oggi il problema è il lavoro e le diseguaglianze che sono esplose, non possiamo perdere un’occasione irripetibile. E basta con la precarietà, ce n’è troppa», ha detto Landini chiedendo una nuova proroga del blocco dei licenziamenti «fino a fine emergenza», cioè almeno fino al 30 giugno, termine fissato dal governo Conte per lo stato d’emergenza della pandemia. Quei tre mesi potrebbero essere sufficienti a varare la riforma degli ammortizzatori sociali. Una elaborazione è stata già fatta con il ministro del Lavoro uscente Nunzia Catalfo e Landini ha precisato che intende ripresentare a Draghi le stesse proposte.

Un unicum

L’Italia è l’unico paese in Europa dove a causa della pandemia, con il decreto Cura Italia del 12 marzo dell’anno scorso, sono stati vietati sia i licenziamenti collettivi sia quelli individuali per “giustificato motivo oggettivo”. Di proroga in proroga la fine del blocco sarebbe fissata al 31 marzo e alla scadenza mancano una quarantina di giorni lavorativi. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel discorso con cui ha annunciato la fine dei tentativi per il Conte ter, ha indicato proprio la questione del blocco dei licenziamenti tra le scadenze più delicate in vista, e ha dato a tutti la sensazione di ritenere inevitabile una ulteriore proroga. Confindustria però è scesa in campo con il presidente Carlo Bonomi per dire che si aspetta «una ripresa con gradualità» della libertà di licenziamento per «evitare uno shock occupazionale» e una maggiore selettività nella concessione degli aiuti Covid, solo per le aziende con piani esuberi o in stato di crisi per riorganizzazione formalizzato dal ministero dello Sviluppo economico. Quale sia il pensiero di Draghi sul punto si può solo intuire. Nel citatissimo articolo della scorsa primavera sul Financial Times dedicato a «una tragedia umana potenzialmente di proporzioni bibliche», l’ex presidente della Bce aveva avvertito che «la priorità non deve essere solo offrire un reddito di base a chi perde il lavoro» quanto piuttosto che «dobbiamo proteggere la gente dalla perdita del lavoro».

Lo scontro sulle tutele

L’affare è complesso. In un anno di Covid il governo ha fatto decine di miliardi di deficit aggiuntivo per sostenere i redditi con un’impostazione che gli esperti definiscono «alluvionale»: il disastrato mercato del lavoro è stato inondato di indennità emergenziali per tutti. Il consenso è stato pressoché generale, ma adesso, sullo sfondo del blocco dei licenziamenti, la definizione del programma di Draghi obbliga a riaprire la questione degli ammortizzatori sociali. La Confindustria chiede da tempo di «sgombrare il campo dall’ipotesi dell’universalità delle tutele per tutti i lavoratori», come si legge in una bozza partorita a luglio 2020 da viale dell’Astronomia sulla riforma degli ammortizzatori. Esattamente il contrario di ciò che chiedono i sindacati. La bozza di riforma scritta in autunno dai cinque giuslavoristi incaricati dalla ministra Catalfo mantiene un obiettivo di tutela universalistica, pur prevedendo “a regime” un sistema di finanziamento di tipo tendenzialmente assicurativo. Nel frattempo la Confindustria non fa mistero di vedere il reddito di cittadinanza come un fallimento del governo Conte e di puntare a riassorbirlo come misura più mirata di contrasto alla povertà.

Il problema è che, anche se la riforma universalistica degli ammortizzatori fosse pronta e approvata in via definitiva entro giugno, il tempo minimo stimato dagli esperti per la sua «messa a terra» è di sei mesi. Nel frattempo, cioè nell’arco del 2021, si stima che da 800mila a 1,5 milioni di posti di lavoro potrebbero andare persi. L’alternativa è una nuova esplosione del debito pubblico non produttivo.

Il nuovo ruolo dello stato

Secondo l’economista Adriano Giannola, presidente della Svimez, che si dedica allo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, la soluzione c’è e passa comunque per una proroga del blocco: «Tornare subito al Jobs act tra poco più di un mese mi pare complicato». Per Giannola però Draghi potrebbe compensare la libertà di licenziare che prima o poi dovrà ridare alle imprese con una forte iniziativa dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza. «Lo stato ha un nuovo ruolo adesso», argomenta il docente napoletano, «e questo di Draghi è il momento dell’operatività. Serve rapidità e fantasia, guardando anche alle esperienze nel resto del mondo. Per una politica anticiclica che sia anche un pezzo della politica industriale che da più di un decennio manca a questo paese. Penso a Enel, Eni, Leonardo, Fincantieri e penso che si possano mettere insieme le infrastrutture sociali e logistiche che servono al paese». Il consiglio sarebbe dunque quello di far ripartire le assunzioni per progetti nelle grandi aziende pubblico-private ma anche per l’ammodernamento della pubblica amministrazione, la scuola, la formazione permanente.

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