Sul fronte “istituzionale” è un coro di certezze. Il Capacity Market, strumento di remunerazione della disponibilità garantita di energia elettrica, resta per molti imprescindibile. Dal ministero dello Sviluppo economico ai maggiori operatori, passando ovviamente per Terna, il messaggio è chiaro: senza aste non si programma; senza programmazione niente rivoluzione verde nei tempi e nei modi previsti dal Pniec, il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima già promosso dalla Commissione Europea. Ma è davvero così? Possibile che questa maxi operazione di sostegno alle centrali italiane capace di mobilitare quasi 2,8 miliardi di euro nello spazio di appena due bandi di gara rappresenti l’unica soluzione?

A sollevare più di un dubbio ci ha pensato l’ultimo studio di ReCommon, un’organizzazione attiva nelle campagne di responsabilità sociale e ambientale. Pubblicata in questi giorni, in concomitanza con l’assemblea degli azionisti di Enel che è anche la principale beneficiaria dell’operazione con 802 milioni di incasso già garantito per i bilanci futuri, l’indagine esprime una lunga lista di perplessità. Una su tutte: e se il Capacity Market, lungi dall’esserne sostegno, si rivelasse al contrario un vero e proprio ostacolo alla transizione ecologica?

Come funziona il Capacity

Approvato due anni or sono, il Capacity italiano nasce con l’obiettivo di affiancare la progressiva dismissione delle centrali a carbone tutelando al tempo stesso la capacità della rete di garantire adeguate forniture programmabili di energia elettrica. Il riferimento corre alle grandi centrali a gas che, rispetto agli impianti alimentati da fonti rinnovabili, vanterebbero una maggiore programmabilità. Una garanzia per gli energivori e i consumatori finali che non possono permettersi di subire le conseguenze di un interruzione del servizio quando il sole non splende e il vento non soffia. Ecco dunque che la capacità di generazione e accumulo diventa decisiva e come tale può e deve essere retribuita. Le prime aste si sono svolte il 6 e il 28 novembre del 2019 con l’assegnazione dei contratti di opzione per agli anni di consegna 2022 e 2023. In entrambe i casi la capacità assegnata agli impianti alimentati da fonti rinnovabili rappresenta appena il 3 per cento del totale. Basterebbe questo dato per farsi qualche domanda sulla compatibilità del sistema con le dichiarate velleità green.

 Secondo i dati diffusi da Terna, nel 2019 il sistema elettrico italiano poteva vantare 119,3 GW di potenza produttiva efficiente a fronte di un picco massimo di consumo, rilevato il 25 luglio, di 58,8 GW. Nell’ultimo anno di piena normalità pre-pandemia, insomma, le richieste dei consumatori impegnavano appena il 50 per cento circa della potenzialità della rete. Come giustificare dunque il Capacity Market? L’interpretazione del gestore sembra essere decisiva. «Rispetto a qualche anno fa – nota Francesco Ferrante, vicepresidente di Kyoto Club – la differenza tra la capacità installata e la punta massima di consumo si è ridotta. Terna, preferisce mettersi in sicurezza e gradirebbe avere a disposizione un gap più ampio».

La programmabiità

Il tema della programmabilità è centrale. Per anni ci si è abituati a considerare questa variabile come un attributo esclusivo del comparto gas/carbone. Ma nel contesto attuale cresce la sensazione che il gestore stia sottovalutando il peso della tecnologia e il suo impatto. Italia Solare, organizzazione di settore che all’inizio dell’anno ha fatto sentire le proprie ragioni in un’audizione in Senato. Ad oggi, conferma Marco Ballicu, uno dei referenti del Gruppo di lavoro Mercati della stessa associazione, “da un punto di vista tecnico le centrali rinnovabili sembrerebbero già in grado di garantire una certa flessibilità e programmabilità grazie ai sistemi di accumulo in uso: i costi sono discesa e alcune esperienze, fanno ben sperare”. Di fatto parliamo di tecnologie in espansione come il Fast Reserve, che permette di rispondere nell’immediato alle esigenze di domanda, e la Demand Response, che è basata sull’autoproduzione. Sistemi promettenti, dunque, che il Capacity, però, non riesce ancora a premiare.

A generare le maggiori preoccupazioni, in ogni caso, sono proprio i dati delle aste. In base ai contratti, assai più generosi, per altro, di quelli applicati nel resto d’Europa, la capacità dei nuovi impianti è retribuita più del doppio rispetto a quella delle centrali esistenti: 75 mila euro per MW contro 33 mila. Il meccanismo, insomma, starebbe incentivando l’avvio di nuovi progetti basati sul gas in netto contrasto con le ambizioni verdi. Secondo uno studio di Carbon Tracker pubblicato a marzo, gli impianti italiani in via di realizzazione ammontano a 19 unità con una capacità complessiva di 14,5 GW. Enel fa la parte del leone con sette nuove installazioni previste per un apporto stimato di quasi 6,8 GW.

Interpellata da ReCommon alla vigilia dell’assemblea annuale, la stessa Enel ha negato di voler puntare in modo deciso sul gas evidenziando per contro il proprio impegno verso “rinnovabili, elettrificazione e investimenti sulle reti di distribuzione per avere sistemi efficienti, resilienti e che garantiscano un’elevata qualità”. Il gruppo ha inoltre affermato di voler installare 20 TWh di capacità di accumulo in almeno il 30 per cento dei siti alimentati dalle rinnovabili entro il 2030. Al tempo stesso, tuttavia, il maggiore produttore italiano ha anche sottolineato come l’esistenza stessa del Capacity rappresenti una condizione necessaria per l’investimento nelle nuove centrali a gas, un’iniziativa che “non sarebbe possibile in assenza della remunerazione”. Una conferma dell’analisi di Carbon Tracker che  mette in dubbio che impianti nascenti siano in grado di competere con le energie pulite in normali condizioni di mercato. Ovvero in assenza di un sussidio di fatto.

A chi vanno i soldi

Le prime aste hanno assegnato oltre 84 mila MW di capacità. Quasi il 90 per cento della cifra stanziata, 2,45 miliardi, è stata distribuita ai primi dieci operatori che pure contribuiscono a meno del 60% della produzione elettrica nazionale. Oltre a Enel, la lista comprende nell’ordine A2A, Edison, Eni, EP, Sorgenia, Iren, Tirreno Power, Engie e Axpo. Un aspetto interessante, nota ReCommon, è che le operazioni sul Capacity Market rientrano per definizione nel novero delle cosiddette “attività regolate”, poiché garantiscono un flusso di cassa programmato che non viene influenzato dall’andamento della domanda. Un’ipotesi che appare in linea con gli auspici del settore.

A fine del 2020 lo stesso amministratore delegato di Enel, Francesco Starace, si è spinto a dichiarare di immaginare uno scenario futuro nel quale la generazione di elettricità possa diventare un'attività regolata paragonabile alla gestione di rete. Ed è altrettanto evidente che l’afflusso di ricavi regolati inciderà positivamente sul margine operativo di tutti i grandi operatori compensando, almeno in parte, le svalutazioni legate al carbone che penalizzano i conti del comparto generazione. Solo che i costi, notano i critici, rischiano di essere scaricati in definitiva sull’ultimo anello della catena: gli utenti.

Secondo il ministero dello Sviluppo economico, il sistema dovrebbe spingere progressivamente al ribasso il prezzo dell’energia generando un risparmio di 1,6 miliardi di euro all’anno. Ma questa, per ora, è solo un’ipotesi. I 2,8 miliardi alla voce aste, al contrario, sono un dato di fatto.

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