Nei giorni scorsi la Banca centrale americana, la Fed, e la Bce hanno annunciato le loro decisioni di politica monetaria. Entrambe le banche centrali proseguono nella restrizione, anche se con modalità differenti.

La Fed ha lasciato i tassi costanti ma si è impegnata a due rialzi prima della fine dell’anno, una strategia che ha sollevato molti dubbi: se i tassi vanno alzati, perché aspettare? Se sono tenuti costanti in attesa di nuove informazioni che potrebbero venire nelle prossime settimane, perché legarsi le mani annunciando fin d’ora ulteriori aumenti? La Bce ha seguito una strategia più convenzionale, aumentando i tassi di un quarto di punto e affermando, senza però impegnarsi, che i rialzi probabilmente continueranno.

Una restrizione fuori tempo massimo

Più passa il tempo e più mercati e analisti si interrogano sull’ostinazione con cui Fed e Bce persistono nella restrizione monetaria. L’inflazione è calata significativamente rispetto ai massimi dell’autunno scorso e anche l’inflazione detta “di fondo” (o core), quella depurata dei prezzi di energia e alimentari (un indicatore per sua natura più vischioso), inizia a mostrare segni di un’inversione di tendenza. Inoltre, anche se i mercati del lavoro rimangono vivaci, sia per gli Stati Uniti sia per la zona euro è previsto un rallentamento dell’economia nella seconda metà dell’anno.

Infine, e soprattutto, le banche centrali sembrano, anche nella loro comunicazione, trascurare un fatto ben noto agli economisti: gli effetti dei rialzi dei mesi scorsi non si sono ancora pienamente manifestati. La letteratura empirica infatti è abbastanza chiara sul fatto che gli effetti della politica monetaria si dispiegano con almeno un anno di ritardo, se non di più.

Quindi, la restrizione iniziata nella prima metà del 2022 avrà effetto solo nella seconda parte del 2023, quando l’economia è già prevista in rallentamento e l’inflazione in ulteriore calo. Il rischio di una politica monetaria che diventa prociclica, affossando un’economia che invece avrebbe bisogno di essere sostenuta, diventa più forte ogni giorno.

In questo contesto le banche centrali sono chiamate a dare spiegazioni. Nel giustificare la decisione della settimana scorsa la Bce ha insistito sul fatto che l’inflazione resterà «troppo elevata troppo a lungo», non tornando al 2 per cento prima del 2025; e, soprattutto, sul fatto che occorre a tutti i costi evitare che un lungo periodo di inflazione sostenuta finisca per alimentare una spirale di salari e costi crescenti, che a sua volta eserciterebbe una pressione al rialzo sui prezzi.

A sostegno di questa tesi si fa notare che il mercato del lavoro è in ottima salute, da entrambi i lati dell’oceano. Negli Stati Uniti, il tasso di disoccupazione nel gennaio 2023 è sceso al 3,4 per cento, il livello più basso dal maggio del 1969 e vi è rimasto per tutta la primavera. Anche nei paesi della zona euro, sia pure non in modo così evidente, il mercato del lavoro è stato particolarmente dinamico nel 2022; il tasso di occupazione nell’eurozona è ai massimi dal 2008.

La ricerca degli economisti smentisce le banche centrali

Tuttavia, e il Diario Europeo lo ha sottolineato già più volte, la spirale finora non si è manifestata. Sono i dati stessi della Bce a dircelo. La compensazione per addetto è cresciuta meno dei prezzi nel 2021 e nel 2022, risultando in un calo dei salari reali cumulato di più del 6 per cento.

La pressione sui costi, quindi, non c’è stata e anzi, anche di questo abbiamo parlato in più occasioni, nel 2022 sono stati i profitti e margini crescenti ad alimentare l’inflazione.

Si potrebbe tuttavia argomentare che il passato è il passato, e che le dinamiche recenti vedono un’accelerazione dei salari che va fermata prima che diventi una valanga. Effettivamente è vero che i salari sono aumentati più dei prezzi nel quarto trimestre del 2022 e leggermente (dello 0,03 per cento) nel primo trimestre del 2023; la spirale, insomma si starebbe avviando.

Ma, ancora una volta, la ricerca empirica dice altro. Un recente studio del Fmi guarda all’esperienza storica e mostra come le tendenze osservate recentemente non siano atipiche: le fiammate inflazionistiche sono generalmente seguite con ritardo dai salari nominali, che tendono a recuperare il terreno perduto nel medio periodo.

Se la stessa cosa avvenisse in questo frangente, ritengono i ricercatori del Fmi, dovemmo aspettarci una crescita significativa dei salari nominali che continuerà ancora per qualche tempo dopo che l’inflazione sarà tornata a livelli ragionevoli, fin quando i salari reali saranno di nuovo riallineati con la produttività. Insomma, non di spirale si tratta, ma di un complesso processo di aggiustamento di variabili che hanno tempi di reazione diversi per tornare all’equilibrio.

Di fatto, non occorreva nemmeno guardare all’evoluzione dei salari reali per comprendere che il rischio di una spirale prezzi-salari fosse sopravvalutato e da molti utilizzato strumentalmente. Rispetto agli anni Settanta, infatti, molte cose sono cambiate, e la correlazione tra prezzi e salari si è fortemente ridotta durante la “grande moderazione”, il lungo periodo di crescita stabile e inflazione moderata durato dagli anni Ottanta al 2008.

Le ragioni sono, tra le altre cose, istituzionali. In primo luogo, è sempre meno diffusa l’indicizzazione dei salari all’inflazione. Un recente studio della Banca per i regolamenti internazionali riporta come nell'area dell'euro la quota di dipendenti del settore privato i cui contratti comportano un ruolo formale per l'inflazione nella fissazione dei salari è scesa dal 24 per cento nel 2008 al 16 per cento nel 2021 (lo studio purtroppo non dice di quanto fosse negli anni Settanta). Inoltre, le tensioni sui mercati del lavoro sono meno evidenti di quanto non appaia a prima vista.

Due ricercatori americani hanno recentemente documentato come, storicamente, le tensioni salariali non appaiano quando si riduce la disoccupazione o aumentano i posti vacanti (i posti di lavoro per i quali le imprese non trovano candidati); quello che fa aumentare i salari è la riduzione della sottoccupazione e della precarietà, come catturate ad esempio da contratti informali o part-time non voluti.

Questi indicatori non sono migliorati, né negli Usa né in Europa. Ciò potrebbe contribuire a spiegare perché la buona salute dei mercati del lavoro non si è tradotta in aumenti significativi dei salari.

Insomma, le banche centrali continuano a frenare con giustificazioni smentite da dati ed esperienza storica. Il timore è che si accorgano dell’errore quando sarà troppo tardi e far ripartire la macchina si rivelerà complicato e faticoso.

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