Se in meno di 24 ore il governo è riuscito a correggere per ben due volte il testo del decreto annunciato lunedì in serata, che cosa potrà ancora succedere nelle prossime settimane, quando la norma è attesa in parlamento per la conversione in legge?

È questo l’interrogativo che riassume i dubbi e i timori del mondo finanziario sulla nuova tassa che istituisce un’imposta straordinaria sui profitti delle banche.

Ieri, com’era prevedibile, i titoli bancari, reduci dal crollo di martedì, hanno chiuso in rialzo, ma restano lontani dalle quotazioni di lunedì, prima dell’annuncio del governo.

I mercati, però, si muovono sull’onda dell’emotività e quindi misurano solo in parte lo sconcerto con cui è stato accolto il tributo che andrebbe a colpire «i margini ingiusti delle banche», per usare le parole che ieri la premier Giorgia Meloni ha affidato a un messaggio video via Facebook.

Le perplessità di analisti e investitori riguardano l’oggetto stesso della nuova tassa, i cosiddetti extraprofitti. Come si misurano? Quando un profitto può essere considerato normale e quando invece diventa extra?

Lobby in azione

I banchieri in prima battuta hanno scelto la linea del silenzio. La reazione dell’Abi, l’Associazione bancaria italiana, sarà discussa oggi in una riunione del comitato di presidenza.

Difficile che si vada al muro contro muro con l’esecutivo, anche se non sono esclusi possibili ricorsi in tribunale sulla scia di quanto fecero l’anno scorso le aziende energetiche colpite da una tassa ad hoc sull’aumento dei loro profitti gonfiati dal boom dei prezzi. Appare più probabile lo scenario che vede le banche impegnate in un‘azione di lobby sui partiti di maggioranza.

I margini per arrivare a una parziale riscrittura del decreto non mancano, anche perché lo schieramento di governo è tutt’altro che compatto con Forza Italia che prova smarcarsi da Lega e Fratelli d’Italia. Del resto, anche la correzione varata in tutta fretta dall’esecutivo nella serata di martedì, dopo la reazione a suon di ribassi dalla Borsa, può già essere considerata un primo risultato del pressing dei banchieri.

Il limite massimo dell’imposta è stato infatti fissato allo 0,1 per cento dell’attivo di ciascun istituto, una soglia che secondo i calcoli degli analisti ridurrà il peso del tributo. In totale l’erario non incasserà più di 2,5 miliardi, meno della metà di quanto ipotizzato inizialmente.

La trattativa

Al tavolo delle trattative verrà riproposta dall’Abi la posizione già espressa nelle settimane scorse, ogni volta che in ambienti politici era stata ventilata una qualche forma di tassazione extra sui ricchi utili degli istituti.

Il nuovo prelievo, argomentano i manager del credito, finirebbe per sottrarre risorse preziose alle banche nel 2024, quando si faranno sentire gli effetti del rallentamento economico su imprese e famiglie.

Nel Rapporto sulla stabilità finanziaria pubblicato in aprile, Bankitalia ha già segnalato che nei prossimi mesi le rettifiche di valore sui crediti a rischio, ora su livelli molto bassi nei bilanci delle banche, sono destinate ad aumentare per effetto di una congiuntura più difficile.

Scenario negativo

I margini di manovra degli istituti finiranno quindi per ridursi e la nuova imposta decisa dal governo peggiorerà la situazione, con il risultato che verrà penalizzata l’offerta di prestiti diretti a sostenere l’economia reale.

Questo stesso scenario è stato descritto dalla Bce alla fine dell’anno scorso, in un parere legale non vincolante a proposito della tassa sugli extraprofitti bancari decisa dal governo spagnolo.

Nel documento pubblicato a novembre la banca presieduta da Christine Lagarde raccomandava un’approfondita analisi delle «potenziali conseguenze negative» dell’imposta sul settore creditizio, anche perché – si legge – il rallentamento dell’attività economica peserà sui bilanci degli istituti costretti ad aumentare gli accantonamenti su crediti. Il caveat della Bce non ha prodotto effetti concreti. L’esecutivo di Madrid ha tirato diritto e l’imposta supplementare garantirà quest’anno un incasso di 1,4 miliardi di euro per le casse pubbliche.

Tra gli analisti c’è anche chi ipotizza possibili conseguenze sui volumi degli acquisti dei titoli di stato da parte del sistema bancario. È noto, infatti, che poco meno del 20 per cento dei Btp collocati dal Tesoro si trovano nei portafogli degli istituti italiani.

Quindi non è da escludere che per far fronte ai nuovi oneri tributari e puntellare l’attivo di bilancio, le banche scelgano di tirare un po’ il freno sul mercato delle obbligazioni nostrane, con prevedibili effetti negativi sulla gestione del debito pubblico di Roma. Questa però è solo un’ipotesi estrema.

Piccole banche perdono

L’attenzione dei banchieri adesso è concentrata sugli effetti a breve termine del siluro lanciato dal governo. I più preoccupati sono i manager al vertice delle banche di piccola e media stazza, che tradizionalmente ricavano la maggior parte dei loro utili dall’attività creditizia tradizionale (depositi e prestiti), cioè proprio quella che viene colpita dalla nuova tassa.

Grandi istituti come Intesa e Unicredit offrono una gamma di servizi molto più ampia, servizi che garantiscono un ricco flusso di proventi sotto forma commissioni, che invece sono al riparo dall’imposta sugli extraprofitti.

Per come è stato scritto, il decreto offre una comoda scorciatoia per le banche che puntano a schivare almeno in parte il tributo appena annunciato. Basterà spostare una parte dei ricavi dalla voce interessi a quella commissioni. Una manovra relativamente facile, che produrrebbe costi supplementari a carico dei clienti. Non è neppure da escludere che i banchieri provino a far passare in Parlamento un altro paracadute.

La legge potrebbe essere corretta per ridurre gli oneri a carico delle banche più piccole. Chissà che cosa farà Matteo Salvini, che da sempre sostiene di difendere le banche del territorio e adesso si è intestato la paternità di una legge che privilegia i grandi gruppi.

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