Come in un film sulla mafia, Sam Bankman-Fried fondatore di FTX, una “borsa” per criptovalute, condannato per truffa, rischia decenni in carcere; Changang Zhao, capo di Binance, condannato per riciclaggio, con una multa di 4 miliardi; Kraken, altra “borsa” sanzionata e sotto processo; Do Kwon, fondatore della cripto Terra, arrestato in Montenegro in attesa di estradizione; Su Zhu, fondatore dello hedge fund Three Arrows, arrestato a Singapore; Alex Mashinsky, fondatore di Celsius Network, arrestato negli Usa e in attesa di processo; Brian Amstrong, ceo di Coinbase altra “borsa”, il cui titolo è quotato a Wall Street, incriminato per attività illegale. E questi sono solo i casi più eclatanti. Innegabile che le cripto siano state una gigantesca truffa.

La Sec ci ha messo tanto a reprimere gli abusi perché, in assenza di una normativa specifica, è dovuta ricorrere ai tribunali ordinari. C’è poi la diatriba sulla natura giuridica delle cripto. Non sono moneta in quanto il loro rapporto di conversione con la moneta legale è incerto; ma sono securities (attività finanziarie) su cui la Sec ha giurisdizione, oppure commodities (merci), regolamentate dalla Cftc (l’ente di controllo della Borsa merci Usa)?

La grande rimonta

Ci si aspettava che la maxi retata della Sec portasse alla scomparsa delle cripto. Così è stato inizialmente: Bitcoin, la principale, ha perso fino a 80 per cento dai massimi di fine 2021. Ma la dichiarazione di morte è stata prematura: da inizio 2023 il Bitcoin è salito del 150 per cento, e la capitalizzazione complessiva delle cripto ha raggiunto i 1.800 miliardi.

E in quest’ultimo periodo gli investitori sono stati soprattutto istituzionali. Inoltre l’accesso dei risparmiatori a questo mercato sarà facilitato dagli ETF su panieri di cripto, che la Sec ha appena autorizzato: nel primo giorno ci sono stati scambi per ben 4,6 miliardi, il doppio di una giornata media a Piazza Affari. La Sec li ha approvati nonostante la sua opposizione pluriennale, perché i tribunali hanno giustamente stabilito che, essendoci contratti futures sulle cripto scambiati al CME, un mercato regolamentato, non si poteva non autorizzare un ETF, in quanto l’osservazione dei prezzi futures avrebbero garantito contro eventuali manipolazioni dei prezzi delle cripto nel paniere degli ETF.

Da noi, il mercato delle cripto è rimasto un fenomeno limitato, normato da una Direttiva Europea che, definendole attività finanziarie, le assoggetta alla stringente regolamentazione esistente. Le banche italiane hanno poi dichiarato di non volerle offrire ai propri clienti: l’impressione è che, non potendole proibire, si voglia impedirne la diffusione per prevenirne rischi e abusi.

L’esempio americano

Quanto successo negli Usa dimostra che se si é determinati a perseguire e punire severamente frodi ed abusi, la domanda di investimenti in cripto da parte sia dei risparmiatori sia degli investitori istituzionali é consolidata, e ci si attende che queste attività entrino stabilmente nei portafogli degli investitori. Infondata la critica che le cripto sono inutili e dannose, mere scommesse senza una vera attività sottostante. Anche i futures sugli indici di Borsa, per esempio, lo sono: chi compra un contratto sul Ftse-Mib scommette che il valore di un paniere di titoli salga, e la “vincita” o la “perdita” viene pagata giornalmente (la variazione dei margini); ma non intende, né potrebbe, acquistare a scadenza i titoli del paniere. Un’attività finanziaria esiste nella misura in cui gli investitori la domandano: ed esiste una domanda di cripto.

La domanda a sua volta induce l’offerta di prodotti, servizi e strumenti da parte dell’industria finanziaria: i grandi asset manager hanno lanciato gli ETF; al CME vengono scambiati futures e opzioni liquide; gli intermediari offrono servizi di brokeraggio, intermediazione e custodia, e saranno regolamentati dalla Sec (anche se alcuni casi sono pendenti in tribunale).

Le banche, per non farsi disintermediare, hanno un incentivo a emettere stable coins, ovvero cripto il cui valore è fisso in termini di moneta legale e che servono per operare nel mercato delle cripto e fare pagamenti: assicurare il valore di uno stable coin o di un deposito è concettualmente la stessa cosa. L’aspetto più importante, però, è che l’espansione delle cripto dà un forte impulso al fintech per la costruzione di infrastrutture per i pagamenti e le transazioni finanziarie più efficienti, rapide e meno costose di quelle attuali.

Infine l’esperienza americana dimostra che, se si vuole, le transazioni in cripto sono tracciabili (lo hanno fatto perfino per i finanziamenti ad Hamas), e rispetto al contante permettono di combattere più facilmente riciclaggio ed evasione.

Occasione per l’Europa

Perché dovrebbe interessarci? Scoraggiare lo sviluppo delle cripto, come stiamo facendo, significa far perdere ulteriore terreno all’industria finanziaria e al fintech europeo rispetto ai concorrenti americani. Già oggi gli asset manager americani hanno oltre il 70 per cento dei portafogli europei in gestione; Nexi, Worldline e Ayden, i tre principali PSP europei (sistemi di pagamento non bancari) insieme capitalizzano un decimo di Visa; tutte le borse europee capitalizzano un quarto di Wall Street; nelle fusioni e acquisizioni europee le banche americane occupano i primi cinque posti; solo uno tra i dieci più grandi fondi di private equity ha sede in Europa; e il sistema bancario europeo, frammentato e segmentato lungo i confini nazionali, vale sul mercato l’80 per cento del suo patrimonio tangibile stimato, contro il 136 di quello americano: segno di minor efficienza e peggiori prospettive. Senza contare i ritardi nel fintech, sempre più fondamentale per la finanza. Avremo pure la migliore regolamentazione e il sistema bancario più solido, ma non possiamo avere un’economia competitiva rispetto a quella americana senza che lo sia anche l’industria finanziaria.

Qualcosa si muove. La banca francese Socgen anticipa i tempi emettendo il primo stable coin in euro per transazioni cripto in una “borsa” in Lussemburgo. Le autorità inglesi (però fuori dall’Ue) hanno autorizzato la creazione di una versione “token” dei fondi di investimento, con investimenti e riscatti fatti attraverso la tecnologia sottostante le cripto. In questo modo sarà possibile investire in fondi senza dover pagare i costi della custodia titoli agganciato a conto bancario e quelli connessi (back office, riconciliazione); e soprattutto farlo in tempo reale senza aspettare due giorni di valuta (se va bene).

Ma è tutto il sistema europeo delle transazioni finanziarie a essere farraginoso e costoso, frammentato in 19 clearing house (contro le 3 americane) e che richiede 2 giorni per finalizzare una compravendita (1 negli Stati Uniti), rispetto al tempo reale e ai minori costi se si passasse alla tecnologia decentralizzata delle cripto.

Ne è consapevole la Bce, che a novembre ha lanciato l’euro digitale, avendo però cura di non chiamarlo cripto, pur copiandone impostazione e finalità: permettere pagamenti e trasferimenti di denaro in tempo reale e a basso costo, tramite un’architettura tecnologia esterna al sistema bancario.

Oggi esistono i bonifici istantanei ma sono costosi, richiedono l’app di una banca e il tempo per digitare l’Iban; e chiamiamo i pagamenti con carte di credito e contactless da cellulare moneta digitale mentre sono solo un sistema costoso per spostare depositi bancari. Ma poiché la Bce non voleva fare concorrenza alle banche (si pensa a un importo massimo di 3.000 euro, e si incentiva comunque il transito da app bancarie e bancomat), e neppure alle Psp (che gestiranno i pagamenti coi negozianti alla stesso costo delle carte), non si capisce a cosa serva, se non a chi non si può permettere un conto bancario o una carta di credito. Senza dubbio un’utile innovazione finanziaria di inclusione sociale, ma una grande occasione sprecata per promuovere la competitività dell’industria finanziaria europea.

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