L’Italia è un po’ come una barca che attraversa l’oceano: la sua navigazione dipende dalle capacità del capitano e dal funzionamento del motore; ma saranno gli uragani, le onde anomale e gli scogli a determinarne la sorte. Penso che siano sei i principali accidenti che determineranno l’andamento dell’economia nel 2024.

Tassi Usa

Il ciclo di aumenti dei tassi in America si è concluso e ci si aspetta che la Fed li riduca rapidamente. Si discute di quanto e quando, e i mercati reagiscono in maniera esagerata a ogni dato, come per l’occupazione venerdì scorso. Ma la questione più rilevante è se la Fed riduce i tassi perché cala l’inflazione, lo scenario soft landing, oppure perché l’economia va in recessione. Questione che ci riguarda perché gli Usa sono il nostro primo mercato per esportazioni nette (40 miliardi nel 2022, rispetto agli 11 col resto dell’Europa, e meno 41 con la Cina). Se si guarda al dato annualizzato degli ultimi sei mesi, l’inflazione è già vicina al 2 per cento perché molte sue determinanti si sono rivelate temporanee: l’aumento dei margini delle imprese si è scontrata con lo sciopero dei consumatori; le disfunzioni nella logistica e filiere produttive, risultate molto più pervasive e durevoli del previsto; lo shock energetico, riassorbito rapidamente; l’aumento dei salari, prevalentemente un recupero del potere di acquisto destinato ad esaurire i propri effetti. Il dato dell’inflazione rispecchia poi il costo dei servizi, lenti ad adeguarsi; per i beni durevoli e prezzi alla produzione è già deflazione. Ragionevole che prevalga lo scenario soft landing.

Inflazione in Europa

L’inflazione in Europa sta scendendo molto più rapidamente del previsto (e la stima di consenso è inferiore a quella dalla Bce), perché le sue determinanti sono simili a quelle americane. Ma ci sono quattro differenze che fanno aumentare da noi il rischio recessione. L’economia tedesca, la principale in Europa, è già di fatto in recessione e i consumi in netto calo (-2,5 per cento il crollo delle vendite al dettaglio in un solo mese).

Il dato annuale dell’inflazione è distorto da quanto successo 12 mesi prima, come per l’aumento di dicembre per l’Eurozona (a +2,9 per cento) solo per il venir meno dei sussidi per il caro energia. A differenza degli Usa, l’Europa ha dato una svolta restrittiva alla politica fiscale: il nuovo Patto di Stabilità concede qualche flessibilità in più ma mantiene il difetto della rigidità che non tiene conto dell’impatto degli shocks e impone obiettivi che non hanno valide fondamenta economiche.

Per l’Italia ci sarà comunque la necessità di generare un avanzo primario per assicurare la sostenibilità del debito. La Bce, infine, almeno nella retorica, esclude per ora un taglio dei tassi: in ritardo di sei mesi rispetto alla Fed nell’aumentare i tassi, rischia di tardare anche nel ridurli, aggravando il rischio recessione.

Crisi cinese

Per tanti anni la Cina è stata la locomotiva del mondo, aprendo alle imprese straniere il suo mercato da 1,4 miliardi consumatori e un vasto bacino di investimenti infrastrutturali; ma anche la sua manifattura, forte del proprio vantaggio in termini di costi. La Cina di oggi è però un’economia in crisi, in apparente declino. E nessuno crede più agli obiettivi di crescita ufficiali. È scoppiata una gigantesca bolla immobiliare: 4 miliardi di metri quadrati di abitazioni già vendute che le imprese non hanno più i soldi per costruire: con un effetto depressivo sui consumatori senza casa ma oberati dai mutui. Fiducia già minata dalle limitazioni per il Covid e da un tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti, a sua volta conseguenza della svolta dirigista e nazionalista di Xi Jinping che ha imposto drastici limiti allo sviluppo dei grandi gruppi nati attorno a internet, tecnologia e fintech, dove i giovani avevano le maggiori possibilità di impiego. Ci sono poi le finanze precarie delle banche regionali che hanno sottoscritto massicciamente obbligazioni per finanziare costruttori e infrastrutture locali, una buona fetta oggi a rischio di default.

Così, in un mondo alle prese con l’inflazione, a novembre i prezzi al consumo cinesi sono scesi dello 0,5 per cento. E per la prima volta i capitali stranieri fuggono in massa dalla Cina.

È la fine della globalizzazione? Solo parzialmente: paesi come Messico, India, Vietnam, Indonesia stanno prendendo il posto della Cina; le imprese occidentali difficilmente rinunceranno al grande mercato cinese; ed è possibile che la politica dirigista di Xi Jinping alla fine si scontrerà con la crisi economica e lo scontento di un numero sempre maggiore di cittadini.

Transizione green

La rivoluzione verde doveva essere la grande occasione europea per acquisire una leadership nel mondo. Invece se ne sono sottostimati i costi, che i cittadini non sono disposti sostenere e che i vincoli di bilancio non permettono ai singoli Governi di finanziare col debito. Ed è mancata la lungimiranza di un piano unico europeo come fu fatto per il Covid.

In Cina, invece, la produzione di energia da rinnovabili ha ormai superato quella da fonti fossili. Forti dei sussidi pubblici garantiti dal governo di Pechino e delle economia di scala nel mercato domestico, le grandi imprese cinesi hanno così acquisito un chiaro primato in termini di know how e di costi in tutti i segmenti delle rinnovabili (solare, eolico, EV), che ora cercano di esportare. L’Europa si trova così di fronte al dilemma tra protezionismo, che aumenta il costo della transizione, e dominio cinese.

Ue a pezzi

Schiacciata tra Stati Uniti e Cina, l’Europa manca di grandi imprese che possano competere a livello globale in settori chiave come il tecnologico, il medicale, l’intelligenza artificiale, il biotech; se poi si tolgono le scandinave, svizzere e inglesi, rimangono lusso, aeronautica, servizi di pubblica utilità e poco altro. Il mercato unico dei capitali rimane di fatto segmentato secondo i confini nazionali; e le fusioni transnazionali un miraggio.

Nella difesa, come sottolineato dall’amministratore delegato di Leonardo, una pluralità di imprese sviluppa sistemi su piattaforme diverse, spesso in competizione: si ritiene che l’Italia abbia bloccato l’acquisizione di Microtecnica da parte della francese Safran perché collabora nella difesa a un consorzio franco-tedesco per un aereo militare in competizione con quello italo-inglese. Ci sono solo tre società telefoniche negli Stati Uniti, ma mediamente quattro in ogni paese europeo (cinque in Italia, appena scese a tre in Spagna), ma di consolidare non se ne parla, anzi il governo spagnolo è entrato in Telefonica per esercitare il controllo, come quello italiano vuole fare con la rete unica, emulando Francia e Germania.

Stessa cosa per le società elettriche e distribuzione del gas: ogni paese a difesa delle proprie, mentre sarebbe essenziale la costruzione e l’integrazione delle reti. L’Unione bancaria è in alto mare, e il settore estremamente frammentato perché ogni governo non vuole che i depositi dei propri risparmiatori escano dal paese. Solo Ing, Unicredit, Bnp e Credit Agricole hanno interessi in un altro paese europeo, ma minoritari. Così, invece di mettere sul mercato il 51 per cento di MPS, e ringraziare chi se la compera anche se straniero, il governo italiano la considera un’attività strategica e promuove il «terzo polo », naturalmente nazionale. Temo che il 2024 sarà ancora di più all’insegna del nazionalismo, condannando il ruolo dell’Europa nel mondo.

Geopolitica

Mai come oggi si parla di rischio geopolitico. Ma quali i costi economici? Si è visto che l’impatto sul costo dell’energia può essere dirompente ma temporaneo, perchè con lo shale gli Stati Uniti, primo produttore al mondo, sono in grado di neutralizzare, anche con le riserve strategiche, forti squilibri tra domanda e offerta. Il secondo costo è a carico di logistica e trasporti, come dimostra l’attuale situazione nel Mar Rosso. Anche questo può avere un impatto notevole, ma destinato a riassorbirsi nel tempo. Il vero costo sarà l’aumento della spesa per la difesa, specie per l’Europa se vorrà finalmente avere una propria autonomia militare e in politica estera.

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