Entro 60 giorni i camini inquinanti dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto andrebbero spenti. Il Tar di Lecce si è espresso così sul contenzioso tra il sindaco Rinaldo Melucci e ArcelorMittal e Ilva in amministrazione straordinaria, rispettivamente gestore e proprietario degli impianti. Il sindaco aveva ordinato lo spegnimento dell’area a caldo perché inquinava e l’azienda aveva fatto ricorso. Con la sentenza non cambia niente: Arcelor Mittal farà ricorso al Consiglio di stato e se ne riparlerà tra qualche mese se va bene. Ma la notizia aggiunge incertezze a una storia infinita. Anche i sindacati sono sul piede di guerra e hanno dichiarato uno sciopero per il 24 febbraio contro la paralisi di ogni decisione.

La svolta rassicurante promessa con il ritorno dello stato nell’acciaio in seguito all’accordo di dicembre per la partnership pubblico-privata Invitalia-ArcelorMittal non c’è stata. La trattativa sindacale su piani industriali e livelli occupazionali si è incagliata a causa del deragliamento del governo Conte. La nuova società mista ancora non è stata formalizzata, l’investimento da 400 milioni di euro di Invitalia deve ancora venire e non è stato ancora nominato il nuovo consiglio d’amministrazione.

Convocati per un incontro la settimana scorsa, i sindacati si sono trovati di fronte solo ArcelorMittal. Di Invitalia nemmeno l’ombra. Le tute blu sono inferocite dalla latitanza dello stato che aspettano come «elemento di garanzia». La multinazionale da tempo è accusata di inadempienze in materia di sicurezza e di gestione della cassa integrazione, e la nuova Ilva rimane sulla carta: la tensione è tornata a salire e spetta ora al governo Draghi, in particolare al nuovo ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, tentare il cambio di marcia.

A che punto siamo

Il 12 dicembre scorso si è celebrato il matrimonio, l’ok dell’antitrust europeo è arrivato il 29 gennaio. Ma a due settimane dal pronunciamento di Bruxelles ancora non è stato firmato il provvedimento che formalizza l’investimento da 400 milioni di euro di Invitalia nel capitale sociale di Am Investco (la società che ArcelorMittal ha costituito per gestire la costola italiana). Occorre un decreto per fare l’aumento di capitale che porterà la società guidata da Domenico Arcuri al 50 per cento dell’acciaieria. Per il mese di maggio del 2022 è già previsto un ulteriore aumento di capitale che sarà sottoscritto fino a 680 milioni da Invitalia e fino a 70 milioni di parte di ArcelorMittal. A quel punto la parte pubblica avrà la maggioranza con il 60 per cento.

Nessuno pensa a ripensamenti o improvvisi dietrofront ma i ritardi sono oggettivi. ArcelorMittal sconta già nelle comunicazioni ufficiali uno slittamento di un mese, da fine gennaio alla “seconda metà di febbraio”. Se è cambiato il ministro competente, ci si interroga anche sul futuro di Arcuri, uomo chiave del governo Conte. La struttura di Invitalia esiste a prescindere dal suo numero uno, ma è un fatto che mercoledì scorso, alla riunione che doveva rappresentare il vero inizio del confronto sindacale sul futuro di Taranto, nessun rappresentante del nuovo azionista pubblico si è presentato. Il tavolo si è trasformato in un flop e le organizzazioni sindacali sono passate all’attacco proclamando lo sciopero per mercoledì 24: «Abbiamo una nuova società ArcelorMittal-Invitalia, frutto di un accordo approvato anche dalla Ue, che però ancora formalmente non esiste – protesta Valerio D’Alò, segretario nazionale della Fim-Cisl –. Non è decollata perché Invitalia, da quanto apprendiamo, deve ancora fare l’intervento sul capitale. In questo contesto, non siamo nelle condizioni di fare una discussione di merito sul piano industriale».

Il secondo elemento che manca è ancora una diretta conseguenza della crisi dell’esecutivo: il consiglio d’amministrazione non è stato ancora nominato. Dovrebbe essere composto da sei membri divisi equamente tra Invitalia e Am Italia. Quest’ultima esprimerà il nome dell’amministratore delegato e tutto sembra portare alla conferma dell’attuale, Lucia Morselli. Lo stato invece deve indicare il presidente e qui la politica ha giocato inevitabilmente un brutto scherzo ai tempi prefissati.

Tra nuova e vecchia Ilva

Così per adesso di nuovo c’è ben poco e i problemi sembrano sempre gli stessi. All’aumento produttivo dopo il record negativo dello scorso anno – il 2020 si è chiuso a 3,3 milioni di tonnellate di acciaio prodotto, quest’anno si prevedono cinque milioni anche grazie a un trend in rialzo del mercatomondiale – non corrisponde da parte dell’azienda un rallentamento della morsa della cassa integrazione (in media, nonostante la ripartenza di alcuni impianti, sono ancora ferme circa 2.800 persone su 8.200).

«Se ArcelorMittal tiene in marcia tre altiforni e ha una produzione giornaliera di 15mila tonnellate di ghisa – si chiede il coordinatore di fabbrica della Fiom, Francesco Brigati – perché devo avere il personale in cassa integrazione? Perché l’azienda ci deve dire che il rimpiazzo nell’organico tecnologico è un costo?». Il rimpiazzo serve a evitare che ci possano essere persone costrette e restare al lavoro per 12 ore consecutive a causa di un’assenza improvvisa o di una malattia. «Invece partono da qui per andare a rintracciare gli esuberi», protesta Brigati.

Non va certamente meglio per l’indotto. Un problema atavico e ciclico: fatture pagate in ritardo dalla multinazionale alle ditte locali e alla fine a pagare il conto sono i dipendenti di fornitori o appaltatori. Nel settembre scorso il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Mario Turco e la sua pari grado al Mise Alessandra Todde fecero insediare alla prefettura di Taranto una cabina di regia della quale ha fatto parte anche l’ad ArcelorMittal Italia, Lucia Morselli: si sbloccarono così i pagamenti, seppure gradualmente, e il contenzioso era rientrato. Ora quello strumento di coordinamento non esiste più e anche il tarantino Turco, braccio operativo di Giuseppe Conte, ha dovuto fare i conti con la crisi dell’esecutivo. Parallelamente e con un certo curioso sincronismo, sono tornati i ritardi nei pagamenti o le fatture proprio non pagate dal colosso dell’acciaio. Adesso a palazzo Chigi arriva come sottosegretario un altro tarantino, Roberto Garofoli, ma non è detto che abbia tempo per occuparsi della grana Ilva.

Di certo, competerà al nuovo governo invertire la rotta. Non solo burocraticamente, tra versamenti da effettuare e nomine da ufficializzare. Soprattutto, si dovrà trovare una soluzione sul tema della transizione ecologica. Giacché ci sarà perfino un ministero apposito, come si coniugherà la vocazione green con lo stabilimento tarantino? La nuova Ilva con la combinazione di altiforni a carbone e forni elettrici, è conciliabile con i propositi totalmente green? Che idee arriveranno dal Mise di Giorgetti a trazione leghista? Il dilemma di sempre – contemperare ambiente, salute e lavoro – per ora lo affronta, e in modo confuso, solo la magistratura.

© Riproduzione riservata